Il populismo è un fiume carsico nella storia dell’Italia. Dall’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini passando per Antonio Di Pietro e Silvio Berlusconi fino al Movimento 5 stelle. Guidato, fondato e posseduto da Beppe Grillo, per almeno due lustri ha rappresentato l’acme dell’antipolitica e dell’iper-politica al tempo stesso. Stretto tra detrattori e apologeti, il M5s è stato disegnato variamente come il male assoluto (ma necessario) e il bene (inutile) della chimera partecipativa. Proprio l’inclusione, l’utopia della partecipazione sempre e a tutti i livelli istituzionali ha rappresentato il mito e il rito fondativo del sedicente non partito partorito dalla visione di Gianroberto Casaleggio. Il combinato disposto tra antipolitica, crisi economico-finanziaria, discredito della classe politica, e sfiducia dei cittadini verso le istituzioni ha fornito il terreno ideale affinché attecchisse una proposta dirompente rispetto agli assetti politico-partitici. Ma è stata l’intraprendenza politica di Grillo e Casaleggio a fiutare la disponibilità di un mercato elettorale per un nuovo partito, opzione in passato esperita solo in parte e con esiti non gratificanti e non stabili, come dimostrato da Italia dei valori o dal movimento del Popolo viola. Il governo tecnico nel 2011 è stato l’apoteosi del processo di etichettamento sociale, di lapidazione di un’intera classe sociale e professionale, un tentativo di eliminazione della politica, ossia della democrazia. Lo smantellamento della rete dei corpi intermedi, la desertificazione sindacale e il progressivo isolamento organizzativo e culturale dei lavoratori hanno altresì contribuito a porre le basi per la costruzione di un “esperimento” politico e partitico (L’esperimento, Jacopo Jacoboni, Laterza).

L’innovazione

La novità del M5s risiede proprio nella capacità di intercettare e assemblare tutte le opposizioni sociali, politiche e culturali del paese, del resto racchiuse in un grazioso improperio diventato simbolo distintivo e marchio di fabbrica. La straordinaria intrapresa compiuta da Grillo e Casaleggio consiste nell’avere racchiuso e raccolto in un unico contenitore i miasmi anti democratici e i brontolii contro istituzionali e qualunquisti che variamente connotano ampli settori sociali da almeno settant’anni. La popolarità di Grillo, saggiamente dosata dai manager del web, e rilanciata, sebbene involontariamente, da una classe dirigente “storica” ormai ingrigita e imbolsita, ha amplificato la gittata del messaggio populista/qualunquista.

L’insieme ideale di ingredienti sociali e politici ha predisposto la tempesta perfetta cui Grillo ha funto da detonatore. Ma è stata la costruzione certosina, da laboratorio, dell’impianto organizzativo che ha tenuto insieme tutto e il suo contrario, con abile alchimia di para-democrazia e centralismo burocratico. Un miscuglio di temi para scientifici, promesse iperboliche come tali non realizzabili, e espressioni da bar dello sport, ossia il maledetto senso comune che tanto orrore ha generato nella storia umana. Come paravento la cornice imbellettata delle “5 stelle” per partecipare alla cena di gala sebbene in un corpo da parvenu, a tratti popolano. Dopo alcuni tentativi locali, nel 2013 il M5s è diventato primo partito (25 per cento dei voti) e ha sconquassato le dinamiche parlamentari imponendo taluni temi (vedasi l’abominio dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti) che in alcuni casi i partiti “classici” hanno seguito o inseguito per paura, incapacità o per tentare di domare la fiera populista. La messe di voti per il M5s, sostenuto anche da chi non lo confesserebbe mai, nemmeno a sé stesso, è stata alimentata dalla condizione economica individuale (o dalla percezione della stessa in chiave prospettica), dalla sfiducia nelle istituzioni, ma soprattutto dall’avversione per l’Unione europea. Contro cui gli strali di Grillo & Co. hanno impietosamente battuto per anni. Proprio l’atteggiamento negativo contro l’Ue è il fattore che spiega di più il voto per il M5s, in un messaggio anti-delega e contro la rappresentanza.

La rivoluzione generazionale

È stato però il voto giovanile la vera novità introdotta dal M5s. Dopo l’exploit registrato dal Partito comunista nel 1976 tra i giovani (anche in virtù dell’abbassamento della maggiore età da 21 a 18 anni) è stato il consenso espresso nel 2013 a rappresentare un’autentica rivoluzione in termini generazionali. Il 44 per cento dei giovani (18-24 anni) ha votato per il Movimento 5 stelle alle elezioni “non vinte” dall’allegra brigata guidata dal Partito democratico, e anche nel 2018 una quota minore, ma maggioritaria rispetto agli altri partiti ha diretto il proprio consenso sui Cinque stelle (25 per cento). Il resto lo ha fatto l’illusione della sostituzione del partito con l’individuo che nel disegno grillino dovrebbe essere onnisciente, onnipresente, dotato di tempo e risorse illimitate al fine di partecipare sempre e comunque per deliberare sullo scibile umano. Sul piano teorico questa pretesa da impostori affabulatori è stata ampiamente smentita da Evgenij Morozov, mentre la mistificazione della propaganda su “uno vale uno” non regge alla prova empirica ché i voti si pesano e non si contano soltanto, come sa chiunque abbia partecipato anche a una riunione di condominio ovvero abbia gestito una bocciofila. Le dinamiche di potere sono sempre presenti nei rapporti tra persone e all’interno delle organizzazioni, di qualsiasi natura, fin dalle società tribali. Inoltre, la mitizzazione del web non solo quale veicolo di partecipazione ma come fonte principale di informazione politica non regge, come dimostrano serie storiche di rilevazioni demoscopiche, in cui la vituperata tv in realtà ancora rappresenta una delle principali fonti di approvvigionamento informativo, anche per gli elettori del M5s.

La forma è sostanza

Nemmeno il partito è diverso dagli altri, nella forma quantomeno. Non lo è per i temi che tratta, per come li affronta, né per l’organizzazione o per la classe dirigente, variamente in-competente senza distanze abissali dal resto del gruppo. Un partito che occupa interi gangli della burocrazia ministeriale, ma pretende di essere altro e persino altero, nonostante alcune lacunose carenze fondamentali. Era un partito sin dagli albori, dalle prime elezioni in cui si è presentato agli elettori. Al di là dell’auto percezione e auto rappresentazione, e della legittima pretesa di diversità rispetto ai partiti pre esistenti. Voler essere non partito in quanto l’anti politica è la cifra del Movimento, ben prima del populismo e della trita dualità e dicotomia noi/loro, e le intemerate contro la presunta casta. La vaghezza organizzativa, ostentata e palesata, si combina con la vacuità ideologica perseguita con tenacia tipica del qualunquismo. Destra e sinistra non esistono, come notoriamente teorizzato dai pensatori grillini, ideologici dell’idolatria del non pensiero. Da qui le oscillazioni pericolanti su temi di ordinaria amministrazione, ma anche su questioni etiche, sulla geopolitica, e sulle vicende economiche e finanziarie. I cosiddetti Stati generali del M5s – che potrebbero ricordare quelli del 1789 con esiti nefasti per chi li convocò – sanciscono l’ordinario ingresso nel mondo dei partiti, e l’abbandono del modello con leadership carismatica. Che è stata la cifra dell’Italia politica del Novecento. L’uomo della provvidenza, o meglio la provvidenza dell’uomo solo al comando: da Benito Mussolini a Berlusconi, a Mario Monti, a Matteo Renzi, a Grillo fino al prossimo da idolatrare e mettere alla gogna nello spazio di un mattino. Gli Stati generali non sanciranno nulla di rivoluzionario rispetto a quanto accaduto nelle cose recenti. Infatti, oltre a Rousseau, Jean-Jacques acriticamente celebrato quale filosofo/teorico della partecipazione diretta (sebbene limitata, si veda Bernard Manin), esiste un altro illustre omonimo. Il pittore naïf Henri che dipinse, tra gli altri, L’incantatrice di serpenti. Ecco, il M5s oscilla furiosamente e quasi inconsciamente tra la democrazia, lo sdegno verso le istituzioni rappresentative e la fascinazione per i racconti da focolare, le fiabe di messianiche promesse che stordiscono il popolo, ossia la sublimazione dell’antipolitica. Il populismo è un Cerbero eternamente affamato, che mastica prede ed erode la democrazia. E non si ferma nemmeno una volta entrato nelle istituzioni con la pretesa di riformarle ché il populismo intende annientarle in realtà. Né si vede all’orizzonte un Virgilio che ne plachi l’appetito e ne allenti la presa delle sue fauci gettando una manciata di terra nella sua bocca. Il Virgilio, la guida per uscire dagli inferi populisti deve essere un miscuglio di leadership individuale e progetto politico collettivo (leggasi partito), munito però di grandi idee e proposte riformiste. Vasto programma.

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