Il nuovo governo Meloni, dalle notizie che circolano, sancirà la fine del ministero della Transizione ecologica. Se la scelta sarà confermata, si tratterà di uno degli esperimenti più brevi della storia repubblicana, imparagonabile persino a quello delle aree urbane che almeno era sopravvissuto sei anni attraversando due legislature.

Eppure, solo venti mesi fa il nuovo dicastero era stato presentato dal presidente del Consiglio come una delle novità più importanti del nuovo governo, che avrebbe consentito finalmente di riunire le competenze su energia e ambiente per disegnare il profilo di un paese impegnato su innovazione, sostenibilità, lotta ai cambiamenti climatici.

Poco si sa delle ragioni di questa scelta, una discussione politica non è neanche partita se non intorno alle caselle da riempire, ma è evidente l’esigenza di capire cosa non ha funzionato in questa esperienza, se e come quei temi potranno essere affrontati meglio con un’altra organizzazione delle responsabilità.

La delega all’Energia

Dalle anticipazioni si dovrebbe tornare a separare l’energia dall’ambiente, a sancire una fusione che non è mai andata in porto. Basti dire che il dipartimento Energia non si è neanche spostato dalla sede del ministero dello Sviluppo economico di via Molise.

Il vero limite di questa esperienza è che non è mai stato chiaro in che modo si volesse davvero cambiare il modo di ragionare e di lavorare e rilanciare un ministero nato per occuparsi di parchi, inquinamento atmosferico e idrico, rifiuti, bonifiche, tutela ambientale.

Questo processo non è neanche partito, per mancanza di idee – con responsabilità in questo anche da parte del parlamento – ma soprattutto per disinteresse da parte del ministro Roberto Cingolani, che ha da subito chiarito che a lui interessavano i temi energetici e su quelli si sarebbe concentrato. Hanno sicuramente pesato le condizioni di contorno e le emergenze, tra attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ed esplosione dei prezzi energetici per la guerra in Ucraina, ma prima di mettere in soffitta questa esperienza occorre capire errori e responsabilità, oltre alle questioni ancora aperte che il nuovo governo si troverà ad affrontare.

Ne abbiamo avuta l’ennesima conferma con la terribile alluvione nelle Marche e poi in Sicilia e Calabria a fine estate. Il territorio italiano vede ripetersi con sempre maggiore frequenza e intensità impatti climatici che provocano danni economici enormi, con morti e feriti. Eppure, nell’organizzazione del nuovo ministero non esiste un dipartimento o una direzione che si occupi di adattamento climatico e siamo l’unico grande paese europeo senza un piano per affrontare questa nuova condizione.

Gli impatti climatici

L’impostazione è ancora quella di un paese con storici problemi di dissesto idrogeologico, che affronta più o meno nello stesso modo dal Dopoguerra, rincorrendo emergenze e frane quando avremmo bisogno di analisi e politiche aggiornate per affrontare le conseguenze del surriscaldamento dell’atmosfera e dei mari.

Il problema è che continuiamo a buttare soldi in progetti che non sono prioritari rispetto ai rischi e non diamo strumenti ai comuni per elaborare progetti capaci di ripensare le aree intorno ai fiumi, i sistemi di gestione delle acque in piazze che oggi si allagano, di rendere meno caldi e più belli gli spazi pubblici con alberature e materiali che assorbono meno il calore.

In questi 20 mesi non solo nulla è stato fatto per recuperare questo gap, ma le risorse del Pnrr sono state distribuite con le vecchie logiche e non è stato neanche riproposto l’unico programma di finanziamento di interventi di adattamento climatico da parte degli enti locali, introdotto nel 2020. Eppure, è del tutto evidente che senza un cambio di approccio continueremo a rincorrere la contabilità di danni che si ripetono senza soluzione di continuità, come avvenuto con l’ennesima esondazione del fiume Misa a Senigallia.

Rinnovabili bloccate

Il metro per valutare i risultati sulle rinnovabili del governo Draghi è la distanza da quanto all’anno il nostro paese dovrebbe installare per stare dentro gli obiettivi climatici al 2030. Ossia 7 GW, secondo le dichiarazioni dello stesso ministro Cingolani.

Purtroppo, nella migliore delle ipotesi nel 2022 non arriveremo neanche a un quarto della cifra e malgrado oggi sia conveniente investire nel solare e nell’eolico visti i prezzi dell’energia. La realtà è che sono ancora troppo lente e complicate le procedure per la valutazione e l’approvazione dei progetti. La dimostrazione plastica è l’ennesimo fallimento delle aste per l’assegnazione degli incentivi che continuano ad andare deserte per l’assenza di progetti che abbiano superato l’iter di valutazione.

L’unico dato positivo viene dal Consiglio dei ministri, che ha sbloccato diversi progetti che erano stati bocciati dal ministero dei Beni culturali, ma è l’ennesima dimostrazione di procedure che non sono cambiate e continuano a essere ostili ai progetti da rinnovabili. Le responsabilità però non sono solo di Franceschini: spettava al Mite approvare i decreti sulle aree idonee e non è avvenuto, come era responsabilità di Cingolani accelerare le procedure per l’eolico offshore, dove ci sono decine di progetti fermi perché mancano le regole per valutare progetti e incentivi.

Per non parlare del decreto che doveva sbloccare la realizzazione delle comunità energetiche, la cui scadenza era a giugno ma che ancora non ha visto uscire una bozza dagli uffici del ministero. All’inizio di questa esperienza ministeriale in tanti guardavano con simpatia ad alcune fissazioni di questo scienziato prestato alla politica.

Perfino l’attrazione per i palcoscenici mediatici e il gusto per la provocazione, come il continuo parlare di nucleare invece che di rinnovabili e le battute nei confronti del «bla bla bla» di Greta Thunberg. Venti mesi dopo è chiaro che dietro non c’era un pensiero indipendente e il libero confronto tra idee, ma la difesa di solidi interessi ostili all’accelerazione della transizione energetica.

Va ricordato un buon esordio del ministro nei consessi internazionali, grazie alla maggiore competenza sui temi e padronanza dell’inglese rispetto al predecessore Costa, con alcuni risultati positivi nel G20 di Napoli e nella preparazione della Cop26 in collaborazione col Regno Unito. Ma alla prova dei fatti gli impegni concreti presi dal nostro paese e il ruolo svolto per far compiere passi avanti agli accordi internazionali per la decarbonizzazione sono stati pari a zero.

Un inverno senza problemi?

Un grande punto interrogativo riguarda i prossimi mesi, quando con il freddo raggiungeremo il picco dei consumi di gas. Cingolani ha assicurato a più riprese che il paese è stato messo in sicurezza e che sarà un inverno tranquillo, grazie agli accordi firmati per individuare forniture alternative alla Russia, ai nuovi rigassificatori e tubi più grandi.

Oltre al rinvio della chiusura delle centrali a carbone. Se questa strategia a caro prezzo, economico e ambientale, funzionerà come promesso lo vedremo più avanti. Il problema è che oramai non si fa neanche più finta di considerare queste scelte emergenziali mentre comunque si tiene la barra dritta della transizione verso un modello energetico meno dipendente dalle fossili.

Emblematica è l’assenza di strategia per aiutare famiglie, imprese, enti locali a ridurre i consumi. Prima che di nomi e competenze dei ministeri dovremmo occuparci di capire come nei prossimi anni vogliamo innovare il modo di affrontare questioni tanto urgenti e importanti. Perché governi e ministri passano, mentre siamo oramai dentro una crisi climatica che rischia di determinare conseguenze sempre maggiori anche su quella energetica ed economica da cui non riusciamo a uscire.

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