Sembra sia stato riavvolto il nastro, e le immagini dello stesso film ricominciano a scorrere. Prima un decreto-legge (125/2020) che anticipa un Dpcm, poi il Dpcm successivo (13/10), e ancora un Dpcm nuovo (18/10), mentre atti e disposizioni si affastellano, tra indiscrezioni e attesa della conferenza stampa notturna. Il copione è lo stesso, ma il virus non è più uno sconosciuto, come nei mesi scorsi. E gli scienziati avevano previsto la seconda ondata.

Il fatto che a luglio fosse stato prorogato lo stato di emergenza, e poi a ottobre esteso fino al 31 gennaio 2021, aveva fatto sorgere dubbi, che su questo giornale avevamo espresso: se per agire c’era ancora bisogno di derogare alla normativa “ordinaria” – come lo stato di emergenza consente - nonostante fosse noto da mesi cosa aspettarsi per l’inverno, ciò significava che non era stato predisposto in tempo utile ciò che serviva. Cosa si sarebbe dovuto fare, e invece è mancato? E il nuovo Dpcm pone rimedio?

Senza controlli e senza dati

Dopo controlli da Stato di polizia nella primavera scorsa, con droni e forze dell’ordine all’inseguimento del runner solitario sulla spiaggia, durante l’estate si è notata l’assenza di concrete verifiche sull’osservanza delle misure prescritte nei mesi precedenti. Anziché lasciar intendere accertamenti sul rispetto della «forte raccomandazione» di evitare ritrovi affollati in abitazioni private, sarebbe stato meglio implementare la vigilanza in luoghi pubblici circa il rispetto di obblighi quali distanziamento, mascherina ecc.. Se la percezione è che la norma sia sguarnita di controlli, quindi di sanzione, essa perde di effettività e, quindi, di efficacia.

In secondo luogo, come rilevato da due ex presidenti dell’Istat, Giorgio Alleva e Alberto Zuliani, «in tanti mesi non abbiamo investito in un sistema di raccolta di dati che consenta un monitoraggio accurato su probabilità di contagio, dimensioni delle componenti sintomatiche e asintomatiche, collegamento con i rischi successivi, ricoveri e terapie sub-intensive e intensive, letalità». Il «tracciamento dei contatti in caso di esito positivo del tampone consentirebbe la lettura delle conseguenze sulla salute delle persone e una previsione migliore del possibile impatto sul sistema sanitario».

La circolare del ministero della Salute del 29 maggio scorso ha previsto l’esecuzione di test diagnostici solo per «coloro che sviluppano sintomi, anche lievi, compatibili con Covid-19», salvo vi siano risorse per farli. Quella del 12 ottobre ha confermato per i “contatti stretti” asintomatici di positivi la quarantena di 14 giorni dall’ultima esposizione (o di 10 giorni con test il decimo giorno). Così il tracciamento si interrompe quando nella catena dei contatti stretti entra un asintomatico, per accertare la positività del quale non sempre c’è un tampone. E ciò non solo depotenzia la raccolta di dati, ma rende monco il tracing, manuale e digitale.

Le disfunzioni della gestione successiva alla notifica dell’app Immuni sono emerse dalle cronache recenti. Nel nuovo Dpcm è previsto l’obbligo degli operatori sanitari di caricare il “codice chiave”, in caso di positività del paziente. Ma l’intervento degli operatori era già sancito nella circolare del ministero della Salute del 29 maggio, quindi non è una novità: la nuova prescrizione basterà a evitare inefficienze?

Occasioni perse

Ancora a proposito di dati, si è perso tempo nei mesi scorsi pure perché non si sono raccolte evidenze su luoghi, circostanze ecc. più a rischio di contagi. La normativa migliore, la più efficace, si fonda su evidenze concrete: altrimenti, si continuano a dettare disposizioni sproporzionate o inadeguate. E se altrove qualche tribunale verifica la fondatezza di misure restrittive – come nei giorni scorsi a Berlino e Tolosa, ove limitazioni degli orari di attività di ristorazione sono state annullate perché scollegate da indicatori di contagi – in Italia sembra non esserci pari attenzione.

Oltre un mese fa è iniziata la scuola, ma senza che fossero previste le entrate sfasate e i turni pomeridiani alle superiori - ove i ragazzi hanno l’età per badare a se stessi – ipotizzati a inizio estate. Del resto, per settimane si è parlato solo di banchi a rotelle, che sarebbero arrivati all’inizio delle lezioni, ma mancano ancora. Col nuovo Dpcm si torna all’idea iniziale di ingressi modulati, anche perché i trasporti nelle grandi città sono al collasso: si è perso tempo, fino ad arrivare alle criticità attuali, non realizzando la misura più ovvia, ma magnificando i salvifici banchi.

Nei mesi peggiori della pandemia era stato incentivato il lavoro a distanza, ma a inizio estate vi erano state pressioni per la sua conclusione, anche perché gli esercizi commerciali nei pressi degli uffici pativano economicamente l’assenza degli impiegati in pausa pranzo; Conte in conferenza stampa ha invitato nuovamente a favorirlo.

A parte il fatto che la prosecuzione di tale modalità lavorativa doveva essere valutata più in termini di produttività che di impatti sugli esercenti, anche in questo caso il tempo poteva essere impiegato meglio, potenziando la digitalizzazione nella pubblica amministrazione, su cui il lavoro a distanza si basa. E, a proposito di digitalizzazione, nei mesi scorsi si sarebbe potuto intervenire su quella della sanità, promuovendo l’uso del fascicolo sanitario elettronico, là dove esiste, e implementandolo ove è carente. Inoltre, la telemedicina, quanto mai utile in epoca di lockdown, in Italia pare quasi fantascienza, mentre sarebbe essenziale.

La norma intermittente

È stata eliminata la norma del Dpcm, anticipata nella conferenza stampa, relativa al potere dei sindaci di chiudere dopo le 21 aree cittadine affollate (è rimasta la previsione generica della misura). Dopo l’annuncio del Presidente del Consiglio, molti primi cittadini avevano espresso la contrarietà a una disposizione che non avrebbero avuto i mezzi per far rispettare. Ma il potere dei sindaci di prescrivere chiusure localizzate, anche per motivi di salute, già esiste da tempo. Conte avrà forse voluto fare loro un richiamo in termini di responsabilità? Dopo le “raccomandazioni” nei Dpcm, gli “avvertimenti” in conferenza stampa. Anche quello sulle palestre è emblematico: se non si adegueranno al relativo protocollo, tra una settimana ne sarà disposta la chiusura. Cosa significa? Se qualcuna non si conformerà, “per punizione” saranno chiuse tutte, e ciò sul piano “sanzionatorio” appare singolare.

Nei mesi scorsi non si è fatto quanto necessario, e oggi le idee non pare siano molto più chiare.

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