Si fa presto a cadere nei luoghi comuni parlando della disaffezione dei giovani alla politica (e della politica ai giovani potremmo aggiungere), ma a preoccuparci non dovrebbe essere il dato sul loro astensionismo nelle ultime elezioni - un solo punto percentuale in più rispetto agli over 35 - quanto il loro allontanarsi dalla politica attiva.

La palestra in cui si sono formate generazioni di parlamentari, fatta di associazioni giovanili, di partiti, comitati elettorali e istituzioni locali, sembra interessargli sempre meno, eppure le piazze si riempiono di ragazzi che manifestano per ambiente, parità di genere, scuola, salario minimo.

In una società sana il ruolo dei giovani è cercare di cambiare il mondo in cui dovranno vivere, ma l’impressione è che le nuove generazioni si attivino su modalità specifiche, definite principalmente dall’urgenza di rispondere ai problemi contingenti.

Le Sardine sono nate come reazione al populismo, i Fridays for Future sono la risposta al riscaldamento globale, le ragazze dei movimenti studenteschi si sono mobilitate sulla contraccezione gratuita in un momento di alta sensibilità sul tema.

Perché allora questo impegno non si tramuta in una militanza, magari all’interno di una visione più ampia? Perché non si trasforma in una vera “cultura politica”?

LaPresse

Per formare una “cultura politica” sono necessari due elementi: quell’insieme di valori e di visioni, attraverso cui immaginiamo e progettiamo il nostro futuro insieme, e il “metodo”, in grado di tradurre immaginazione e progettualità in agenda concreta, capace di andare incontro alle necessità dei cittadini.

Entrambi possono esistere singolarmente, ma solo insieme sono realmente funzionali alla costruzione di una società.

La Resistenza, le battaglie sindacali, il Sesssantotto, i No Global sono state certamente sentite dai giovani come reazioni necessarie a momenti contingenti e urgenti della storia, ma sono state vissute anche all’interno di una cultura politica che andava oltre la risoluzione dei singoli problemi.

Persino in una situazione disperata, come nell’Italia del nazifascismo, non si trattò solo di imbracciare le armi, ma piuttosto di condividere la visione di una Nazione che sarebbe nata da quella lotta.

L’immaginazione collettiva, unita all’urgenza, è un propellente formidabile per superare una crisi, molto più di una molotov o di un sampietrino.

Più individui, meno gruppi

Gli ideali alla base di quei movimenti sono stati gradualmente sostituiti dall’affermarsi del globalismo, del liberismo economico e dell’idea che tecnica e progresso avrebbero risolto ogni problema.

Un processo che ha rafforzato una cultura dell’iper-individualità, rendendo sempre più difficile sviluppare l’immaginario collettivo e molto più facile fermarsi al senso comune.

A farne le spese è stata proprio la categoria che avrebbe avuto più bisogno di guardare al futuro collettivamente. Se la politica non attrae i giovani è perché l’ideologia che contiene è percepita come ostacolo alla risoluzione dei loro problemi individuali piuttosto che come aiuto.

Non è un caso che nell’ultimo voto la loro preferenza sia andata a forze che privilegiano proprio il “metodo”, rispetto a una “cultura politica” facilmente identificabile.

La sfida per i leader di domani sarà ridare all’impegno dei giovani una visione collettiva.

Ma non è facile, servono in primo luogo gli spazi di partecipazione: luoghi fisici, perché una “community” non potrà mai diventare una comunità, e spazi di confronto dove idee e identità diverse possano convivere, senza paura della complessità dei tanti problemi sul tavolo.

E’ una sfida che non riguarda solo il loro futuro, ma ogni elemento della società che deve tornare a considerare la cultura politica come necessaria al proprio sviluppo.

E chissà che non possano essere i ragazzi a ricordarcelo.

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