Scriviamo quando ancora non c’è certezza sull’esito del voto. Il fatto importante è però proprio questa incertezza, che contraddice le aspettative dei democratici e, soprattutto, la certezza che Donald Trump possa essere sconfitto dal voto subito e con forza, sgonfiando la sua retorica del dubbio che i nemici del popolo siano pronti alla frode.

Anche se il candidato Democratico Joe Biden dovesse vincere, la sua vittoria sarebbe così risicata da non avere da sola la forza di liberare la scena politica dal populista Trump. Nessuno di noi, del resto, riesce a immaginare che una confitta di Trump corrisponda ad una sua uscita morbida dall’arena politica.

La Casa Bianca al suo servizio

Il presidente ha tenuto all’alba una conferenza stampa alla Casa Bianca, un fatto anche questo da segnalare poichè in generale i presidenti uscenti usano il quartier generale del loro partito. Trump ha chiesto di smettere di contare le schede laddove la vittoria si profilava sua. Come se le regole dovessero servire una parte e non la cittadinanza, come se la sovranità risiedesse nella maggioranza “buona”. Trump conferma quale sia il lato oscuro del populismo: l’accettazione di essere minoranza.

La frattura del mondo di Obama

Ma torniamo a questo sofferto stretto margine che separa Biden da Trump. Il Partito democratico che con Barack Obama era tornato a mietere consensi tra i lavoratori è franato con Hillary Clinton e non è risorto con Biden. Il famoso “blue wall” a protezione della cittadella democratica negli stati industriali e manifatturieri, con il ricompattamento delle razze intorno al lavoro, non sembra essere riuscito. Gli analisti ci racconteranno nei prossimi mesi come le tute blue hanno seguito, nonostante tutto, la diversificazione razziale: gli operai bianchi non si sono affratellati per ragioni di classe alle minoranze etniche e soprattutto a quelle afro-americane.

Da un sondaggio che circolava ieri si apprende che la ragione determinante dei votanti è stata l’economica (il 34 per cento) e solo al secondo posto viene la questione della discriminazione razziale (21 per cento). Praticamente irrilevante il Covid (18 per cento).

Trump, con il promesso “pacchetto di stimoli” per rilanciare l’economia dopo il Covid e il taglio delle tasse alle classi medie, e infine con la politica protezionistica sembra aver tagliato l’erba sotto i piedi del suo avversario. Ha anche affrontato aggressivamente la questione della protezione del lavoro americano con una propaganda anti-cinese che ha pagato.

L’economia galoppante è stata a lungo il fiore all’occhiello di un presidente che si vanta di aver sbaragliato il linguaggio e lo stile della “politica politicata” con un populismo semplificatore, capace, così pare, di dare a tutti la certezza di sapere giudicare le questioni politiche ed economiche senza affidarsi ad analisti ed esperti.

La lingua semplificata

Chi segue Trump non solo sui social – dove la brevità della comunicazione agevola la sua naturale aggressività—ma anche in televisione o nei comizi si rende contro di quanto accattivante sia la sua lingua semplice e ricca di agganci emotivi, molto capace di vendere il suo brand promettendo semplicemente di proteggere il tenore di vita degli americani che lavorano, che vogliono poche regole e molta libertà di movimento, che chiedono al governo di Washington una sola e semplice cosa: tutelare il modello americano contro la concorrenza straniera.

Poche parole semplici per portare il mondo complesso vicino agli elettori, una capacità che hanno i populisti ma non i politici tradizionali abituati all’analisi politica complessa, alla deliberazione ragionata, all’ascolto degli esperti con i loro dati e le analisi circostanziate.

Biden ha, è vero, una particolare vicinanza alla cultura popolare del paese ma è un signore gentile e dal linguaggio misurato, che crede nella competenza degli analisti, che diffida delle semplificazioni, che respinge il manicheismo profuso a piene mani in questi anni di trumpismo di lotta e di governo.

La difficile conta dei voti ci dice che questa qualità politica in questi tempo di identificazioni emotive non paga molto.

People watch an address by Democratic presidential candidate Joe Biden at Black Lives Matter Plaza, Wednesday, Nov. 4, 2020, in Washington. (AP Photo/Jacquelyn Martin)

La sindrome del nazionalismo

Oltre al tema del lavoro, chi esaminerà questo voto dovrà cercare anche di capire la biforcazione del voto delle comunità latino-americane, in parte verso Trump (Texas e Florida) e in parte verso Biden (Arizona).

Il voto “latino” diviso significa anche la divisione dei cattolici, una parte dei quali ha subito l’influsso anti-vax e anti-scienza degli evangelici e ha virato verso il trumpismo. Un altro aspetto aspetto del voto “latino” è relativo alla fenomenologia degli ex-immigrati (magari inizialmente illegali) che hanno regolarizzato a fatica il loro stato anagrafico e, soprattutto, conquistato una dignità di cittadinanza.

La sindrome nazionalistica dell’inclusione di chi ha faticato per essere accettato è nota, e si ripete puntualmente, come è avvenuto con altre minoranze in passato. Alzare il muro sulla frontiera del Messico ha significato dare a chi ce l’ha fatta la soddisfazione di essere ormai dalla parte giusta, desiderosi di chiudere la porta dietro di sè.

Non sappiamo ancora il nome del nuovo inquilino della Casa Bianca, ma abbiamo capito quanto radicata sia ormai la politica populista, capace di arrivare laddove la politica dei partiti organizzati non arriva più, di dare categorie interpretative semplici e manichee che aiutano a orientare quando si tratta di trovare i giusti responsabili per le incrinature di un sistema che non riesce più a garantire a tutti indistintamente il sogno americano.

Il populista Trump ha offerto la chiave interpretativa: il popolo che lo vota è quello vero e buono, tutti coloro che lo ostacolano sono potenziali nemici.

La democrazia delle regole del gioco è sotto tiro quando si sente un presidente dire che i voti devono essere contati fino a quando il popolo “vero” e “buono” vince.

Urlare alla frode significa identificare le regole con l’interesse di chi vince. Significa mettere il sistema politico e istituzionale sotto stress. Se Trump non vincesse, vi è da sperare che queste sue parole eversive siano sgonfiate subito dai maggiorenti del suo partito di riferimento, che sia subito riportato al centro il rispetto delle procedure e delle istituzioni.

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