Ho aderito al Partito comunista italiano negli anni della sua clandestinità, quando era ancora al potere il regime fascista. Allora avevo diciassette anni e conoscevo alcuni ragazzi della mia età e altri ancor più giovani, che avevano aderito a questa nuova organizzazione clandestina. In quegli anni, io ero molto malato. Da mesi ero ricoverato in un sanatorio intorno a Caltanissetta, su un monte chiamato Babbaurra, per via della tubercolosi. Alcuni di quei «comunisti» mi vennero a trovare. Tra loro c’era anche Gino Giannone, il figlio del libraio della città. Mi proposero di aderire al partito. Sapevano già che ero un antifascista, e che a scuola mi battevo per i loro stessi ideali. Mi dissero che, per com’ero fatto, l’unica organizzazione cui avrei potuto aderire era proprio il Partito comunista. Furono convincenti.

Quando uscii dal sanatorio mi fecero conoscere Calogero Boccadutri, un operaio che era stato in carcere con Umberto Elia Terracini e che, all’epoca, era a capo dell’organizzazione clandestina. Da allora ho partecipato attivamente all’organizzazione del Pci: leggendo libri, distribuendone, scrivendo sui muri contro il fascismo, facendo propaganda contro il regime. Tutte attività rischiose e illegali. Tanto che, ad esempio, allestimmo una piccola tipografia per stampare clandestinamente i volantini in una cantina di un nostro compagno che faceva il vinaio. Furono anni duri. Ma la mia attività di antifascista e comunista era cominciata da molto lontano. Poi, durante la Resistenza il mio impegno nel partito crebbe e, ancor prima della Liberazione, nel 1944 fui nominato segretario generale della Camera del Lavoro di Caltanissetta.

Successivamente, finita la guerra, nel 1947 venni eletto segretario regionale della Cgil. Infine, nel 1956 divenni segretario regionale del Pci in Sicilia. Nel mentre, ero entrato nel Comitato centrale del partito sotto la segreteria di Palmiro Togliatti. Ho pertanto vissuto la storia del Pci totalmente, integralmente, con partecipazione e con convinzione. E ritengo che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la «svolta» poi operata da Achille Occhetto sia stata una tappa necessaria, quasi obbligata. Anche perché il comunismo italiano era una cosa molto, ma molto diversa dal comunismo sovietico. Certo è che, sebbene una sterzata fosse necessaria, non sono stato affatto d’accordo per come è stata alla fine condotta e dove ci ha portato.

Cambiare era giusto: bisognava farlo, ma dentro gli organi dirigenti del partito. Contesto, pertanto, il modo in cui è stata realizzata. Soprattutto perché ha provocato dissensi e rotture. Se affrontata da dentro, con serenità e determinazione, forse la svolta avrebbe avuto un altro esito. Di tutto quel passato e di quel vissuto, politicamente oggi resta ben poco. Si pensi al Partito democratico, dove convivono ex democristiani, ex comunisti, persino qualche ex socialista. Non si può proprio dire che quella formazione partitica può o deve ritenersi erede di quella storia. È proprio tutt’altra cosa. Anche se la storia del Partito comunista italiano, per come si è intrecciata con quella dell’Italia tutta, non è né può essere cancellata. In conclusione, il Pci ha inciso in profondo nella vita del nostro Paese e, pertanto, la sua esperienza non verrà mai dimenticata.

L’intervento di Emanuele Macaluso è tratto dal libro "I comunisti lo fanno meglio (...oppure no?)", Paesi Edizioni, in uscita il 21 gennaio 2021 in occasione del centenario della fondazione del Pci. Oltre alle parole dell'ex-senatore e giornalista, il volume raccoglie testimonianze rare e riflessioni inedite sul Partito comunista italiano di Massimo D’Alema, Achille Occhetto, Luciano Violante, Fausto Bertinotti, Pierluigi Bersani, Gianni Cuperlo, Livia Turco, Marco Rizzo, Pietro Folena, Paolo Cirino Pomicino, Fabrizio Cicchitto, Giorgia Meloni, Sandro Bondi, Carlo Giovanardi, Bruno Vespa, Lucia Annunziata, Vittorio Sgarbi, Giampiero Mughini, Marcello Veneziani, Pietrangelo Buttafuoco e Mario Mori.

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