A proposito dell’imposta di successione Enrico Letta e Mario Draghi hanno entrambi sbagliato. Letta, pur avendo ragione nella sostanza, ha sbagliato nella forma perché nel Pnrr, che di certo ha letto, c’è un lungo capitolo dedicato alla riforma fiscale ed è giusto che in tale contesto si attui la riforma dell’imposta di successione, molto più bassa di quella dei principali paesi europei. Mario Draghi perché ha risposto con uno slogan caro alla destra conservatrice e neppure corretto perché questo è sì il momento di dare da parte di uno stato investitore e regolatore del mercato, ma è anche il momento di togliere ai più ricchi, che sono diventati ancora più ricchi a causa della pandemia, per redistribuire diversamente la ricchezza riducendo le disuguaglianze sociali. Per questo scopo la politica fiscale è lo strumento principe. La riforma fiscale è una delle azioni chiave per dare risposta alle debolezze strutturali del paese e può essere uno strumento essenziale per raggiungere alcuni obiettivi del Pnrr fondamentali per la crescita. Crescere significa creare ricchezza per una famiglia, per un’impresa, per uno stato, per vivere, per operare, per investire, per ripagare i debiti, quindi anche il nostro enorme debito pubblico. In uno stato, crescere richiede forti investimenti in ricerca, nell’innovazione, nella scuola, nell’università e nella cultura. Il Pnrr destina ingenti risorse a questi temi, che tuttavia sono legati all’attuazione della riforma della pubblica amministrazione, alla digitalizzazione del paese, all’efficienza del sistema produttivo.

I punti deboli

Il Pnrr elenca con chiarezza i punti deboli dell’economia italiana che da vent’anni non tiene il passo con gli altri paesi europei. Un punto fortemente richiamato dal Pnrr riguarda la dimensione delle nostre imprese. Tra il 2013 e il 2018 le imprese italiane occupavano mediamente 3,8 addetti ciascuna, contro i 5,8 dell’Ue, i 5,1 della Francia, i 4,5 della Spagna e addirittura gli 11,7 della Germania. Il nanismo delle nostre imprese è anche la causa della bassa produttività della nostra industria segnalata dal Pnrr. Le microimprese con meno di dieci addetti sono in Italia il 93 per cento del totale delle imprese, contro l’82 per cento della Germania, mentre solo lo 0,09 per cento supera i 250 addetti, contro lo 0,48 per cento della Germania. Infatti abbiamo pochissime grandi imprese capaci di competere nel mercato globale. Uno dei principali fattori che il Pnrr individua per la crescita è quello dell’investimento in ricerca e sviluppo (r&s) sia da parte dello stato che da parte delle imprese. Secondo l’Istat, in Italia nel 2018 l’investimento in r&s è stato pari all’1,39 per cento del Pil, contro il 2,1 per cento della media Ue. La spesa pubblica per r&s è in calo dal 2013, e nel 2018 ha raggiunto lo 0,5 per cento del Pil, il secondo livello più basso tra i paesi dell’Ue. La spesa in r&s delle imprese nel 2018 è stata pari allo 0,86 per cento del Pil, nettamente al di sotto della media dell’Ue (1,41 per cento). Questo dato è determinato proprio dalla struttura industriale italiana formata da piccole imprese che non hanno i mezzi per investire in ricerca. Dunque la dimensione delle imprese è un ostacolo alla crescita che è l’obiettivo principale del Pnrr. La riforma fiscale deve allora prevedere una forte agevolazione – di cui non vi è traccia nel Pnrr – per favorire il consolidamento delle imprese italiane ancora troppo ancorate alle famiglie. La mangerial revolution avvenuta negli Usa oltre cento anni fa, in Italia non è mai cominciata. La modesta dimensione delle nostre imprese è anche un ostacolo alla internazionalizzazione alla quale il Pnrr assegna un’importanza fondamentale destinando rilevanti risorse. Oltre al consolidamento delle imprese bisogna allora investire nella formazione del management perché l’internazionalizzazione viene attuata da manager capaci di studiare il sistema fiscale e societario dei paesi nei quali si vuole operare. La vera internazionalizzazione di un’impresa si attua con una stabile organizzazione che possa controllare direttamente produzione e/o distribuzione in quel mercato. La semplice esportazione lascia ad altri il controllo del mercato.

Le basi della crescita

Il Pnrr pone dunque le basi per la crescita, ma questa può avvenire solo se, oltre alle riforme richieste dal Next generation Eu, sono raggiunte tutte le missioni previste dal Pnrr stesso nei tempi stabiliti. Occorre altresì considerare che gli investimenti in ricerca, sviluppo, innovazione, scuola e università producono i loro effetti nel medio-lungo termine. Purtroppo siamo in ritardo di 60 anni perché da sempre abbiamo investito in ricerca e sviluppo meno degli altri paesi europei. Nella quarta parte il Pnrr prevede il suo impatto macroeconomico dove il Pil passa dallo 0,5 del 2021 al 3,6 del 2026, risultato non esaltante considerato che per il 2021 è prevista una crescita del 3,4 per la Germania, del 5,9 per la Spagna e 5,7 per la Francia. Ancora peggio se consideriamo che il 3,6 dell’Italia per il 2026 corrisponde allo scenario migliore. Quello peggiore prevede un Pil dell’1,8 per il 2026. Le forze politiche dovrebbero considerare tutto questo ed evitare di perdere tempo in inutili diatribe formali o elettorali perché il tempo che ci è concesso per utilizzare con sapienza ed efficacia i fondi del Ngeu è veramente poco.

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