Vi è nella scienza politica, soprattutto americana e canadese, un forte interesse per le forme di governo ibride dei paesi dell’est asiatico. Paesi il cui successo economico è impossibile da sottovalutare. Dove la crescita ha portato in pochi anni alla formazione di una larga classe media urbana e alla diffusione progressiva di benessere tra le popolazioni agricole, senza rivoluzioni e grossi disordini.

La Cina è per molti studiosi un modello di questo gradualismo virtuoso e, quindi, del suo sistema politico. L’espansione in questi ultimi vent’anni di forme deliberative o di quella che viene chiamata “democrazia di villaggio” è avvenuta mantenendo inalterato il sistema centrale di potere del Partito comunista.

Un autoritarismo ibrido, dunque, mescolanza di meritocrazia e forme democratiche di deliberazione, difficile da incasellare e che ha indotto gli studiosi a rispolverare la categoria classica del regime misto – il segretario generale del partito (monarchia), il Politburo di 25 membri del Partito comunista (Senato) e il Congresso nazionale del popolo (democrazia).

Del resto, il modello misto è presente nel confucianesimo dove si mescolano tradizione, competenza, saggezza insieme a consultazione popolare e consenso. Sostiene Daniel Bell (formatosi ad Harvard con Michael Sandel, un teorico di punta della critica comunitaria del liberalismo) in The China Model, che la «democrazia verticale meritocratica» include tre componenti chiave: democrazia alla base (livello locale), sperimentazione mediana (catena di comando intermedia) e meritocrazia al vertice (leader). Secondo Bell questo sistema sfida per efficienza e stabilità quello occidentale.

La forma mista cinese è stata in questi ultimi decenni arricchita di elementi deliberativi con lo scopo di evitare l’instabilità politica. L’esito è un «ibrido di economie di mercato, di dirigismo meritocratico», di «neo-statalismo e neo-liberalismo», scrive Baogang He, docente alla Deakin University di Melbourne. Un sistema che resiste alla degenerazione polarizzante dei cicli elettorali con conflitti mai risolti e, spesso, la caduta in colpi di stato – un destino, dice He, associabile alla democrazia elettorale non a quella deliberativa autoritaria. Una distinzione cruciale per capire il regime cinese. Che assomiglia ai regimi europei precedenti alle rivoluzioni parlamentari e costituzionali ed è designato con un ossimoro, «autoritarismo democratico».

Questo regime ha l’ambizione di progredire nella sperimentazione istituzionale senza incorrere nelle rivoluzioni che hanno segnato la nostra storia moderna.

Si tratta di una diagnosi benevola, che mira a includere il modello cinese tra i modelli tradizionali dell’occidente. Ma l’attribuzione di dignità al governo misto asiatico ha un effetto collaterale inquietante: mettere in discussione la legittimità democratica dei governi occidentali. Che, del resto, già Herman H. Hansen e Bernard Manin hanno classificato come regimi misti, perché con Aristotele identificano l’elezione con un metodo aristocratico di selezione, non democratico.

Il quadro si complica dunque – non più un occidente democratico e un oriente dispotico o semplicemente autoritario, bensì forme più o meno legittime di governo misto, in occidente come in oriente. L’impatto della Cina sulla percezione della nostra democrazia non sarà irrilevante. Anche perché le nostre non sono democrazie pure. Sono sistemi complessi nei quali la legittimazione formale viene dall’eguale libertà politica (diritto di voto universale e segreto) ma che hanno corpi decisionali non formati per selezione democratica: le banche centrali, la magistratura, i corpi amministrativi, le burocrazie si avvalgono di sistemi selettivi di cooptazione e/o merito in senso lato. Lo stesso potere legislativo sottostà al controllo di costituzionalità di organismi nominati (le corti costituzionali) con anche giudici a vita (la Corte suprema statunitense). Sembra proprio che tutto il pianeta sia coperto di governi misti (e l’Unione europea è caso macroscopico).

La legittimità

La legittimità, del resto, non è solo frutto del principio formale di autorizzazione elettorale; è anche un giudizio di stabilità e di funzionalità che altalena tra un minimo e un massimo. Dunque, legittime possono essere anche «società semi-liberali o non-liberali decenti» se, secondo John Rawls, riconoscono diritti umani di base, si impegnano a proteggere le minoranze e danno ai cittadini un potere minimo di voce. La distanza tra i nostri regimi e quelli asiatici si accorcia.

La Cina è un teatro di sperimentazioni di forme controllate di deliberazione politica di tipo democratico, concesse a livello di villaggio: elezioni non competitive, selezione per sorteggio, referendum, assemblee di consultazione e di ascolto delle rimostranze dei cittadini, sondaggi deliberativi, e altre iniziative molto note e praticate anche in occidente.

Democrazia locale e autoritarismo centrale – lo scopo è non di dare potere democratico ai cittadini ma di assorbire il dissenso, di sedare i conflitti, di tenere alto il consenso al regime – a questo serve la deliberazione sperimentata nei villaggi. Si tratta di «elementi genuinamente deliberativi, da cui i leader traggono guida e ai quali si riferiscono per dare legittimità alle proprie decisioni», hanno scritto Baohang He e Mark Warren in un articolo pionieristico su Pespectives on Politics.

Queste forme di deliberazione hanno uno scopo conservatore: consentire una valvola di sfogo al dissenso per subito assorbirlo. Del resto, la deliberazione non è nata democratica; lo è diventata quando il processo di selezione ha seguito il principio dell’empowerment dei sudditi facendone cittadini-elettori. Questo è stato il processo democratico in occidente. E questo è ciò che il governo cinese non vuole. Ecco dunque l’uso della deliberazione nei villaggi come metodo per risolvere problemi pratici specifici, scongiurando che i cittadini facciano petizione al potere centrale, un esito che comporterebbe l’ispezione dei controllori di Pechino e spesso la destituzioni dei leader locali. Dunque, per evitare soluzioni d’autorità, i leader dei villaggi istituiscono assemblee ad hoc, con partecipanti che come stakeholder (residenti interessati) trovano la soluzione al contenzioso discutendo sotto la direzione di tutor. E al voto a maggioranza preferiscono la deliberazione ripetuta fino a giungere a decisioni condivise. Lo scopo è sempre quello di evitare conflitti e pacificare. La “deliberazione autoritaria” non serve quindi a dare potere ai partecipanti ma a preservare l’armonia nella comunità. Qui sta la differenza rispetto alla “deliberazione democratica”.

Ambiguità democratica

Il fatto è che, se la rivalutazione della categoria del governo misto ci fa capire meglio il funzionamento del sistema cinese, nel contempo riveste con un alone di ambiguità le nostre democrazie costituzionali, le quali sono, come abbiamo detto, a modo loro miste, con sistemi di selezione non solo elettorali. La mescolanza tra meritocrazia e democrazia, ci dicono gli studiosi della Cina, è possibile e fruttuosa, e, quel che più conta (e turba) vale anche per le democrazie occidentali. D’altro canto, la curvatura positivistica di molta scienza politica occidentale ci elenca con abbondanza i malanni delle nostre democrazie (la corruzione e i privilegi) causati – guarda caso – dalle elezioni, che scatenano appetiti di parte e alimentano l’ignoranza e i pregiudizi degli elettori. Insomma, l’attenzione dei nostri studiosi per il sistema cinese si incontra con la critica delle disfunzioni della democrazia elettorale. Che cosa c’è di valido nell’avere elezioni decise da candidati telegenici? Se è l’output ciò che conta nella valutazione di legittimità, allora l’autoritarismo con le assemblee deliberative della Cina non funziona altrettanto bene, o forse meglio, delle democrazie elettorali instabili e cacofoniche?

È al principio di legittimità che dobbiamo prestare attenzione se vogliamo motivare la nostra preferenza al modello occidentale. Dove sta la legittimità nel governo misto cinese? Sta essenzialmente nel principio di funzionalità o output – le assemblee deliberative locali servono a risolvere problemi specifici e a sedare dissenso e conflitto. La loro è una legittimità funzionale retta sul principio di ordine, non di libertà. La legittimità fondata sul principio di libertà vuole il diritto di voto universale e segreto e la libera competizione tra più di due partiti. In questo conteso, maggiore è il potere dei cittadini di decidere sui candidati, di far contare il loro voto con sistemi elettorali equi, maggiore è la legittimità percepita oltre che la legittimità formale. E questo conta non meno degli output.

Nonostante tutto, la Cina resta «una pseudo democrazia perché illiberale» – ciò che le manca sono proprio le elezioni «competitive», istituzioni di libertà politica che riconoscono il conflitto. E non può che essere così se l’autoritarismo del partito unico deve restare in sella. Come ha scritto Andrew Nathan, docente alla Columbia University, le riforme in senso deliberativo servono non a democratizzare il governo cinese, ma ad accrescere «l’adattabilità, la complessità, l’autonomia e la coerenza interna dell’organizzazione dello stato».

La deliberazione senza elezioni vale a mantenere il sistema autoritario. Un metodo popolare di risoluzione di problemi locali che non basta a fare la deliberazione democratica.

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