Non solo strade, ponti, ferrovie e banda larga, ma anche scuole materne gratuite per 5 milioni di bambini tra i 3 e 4 anni, università e un piano per il lavoro che punta ad aumentare le retribuzioni per milioni di americani, in particolare quella fascia di ceto medio impoverito, messo ai margini da anni di tagli alla spesa pubblica, deregulation e taglio delle tasse ai ricchi. I primi cento giorni di Biden non smettono di riservare sorprese. Un mese dopo il varo del piano infrastrutturale da 2.000 miliardi di dollari, il nuovo presidente americano ha annunciato un ulteriore investimento di 1.800 miliardi di dollari in istruzione, assistenza all’infanzia, congedi familiari e crediti d’imposta per le famiglie a basso e medio reddito. Non si ricordano interventi simili almeno dai tempi del New Deal di Roosevelt. L’obiettivo dichiarato è quello di allargare la base universalista del welfare e migliorare le condizioni di lavoro di chi nel sociale è occupato, spesso però con contratti precari e salari bassi che rasentano il rischio povertà.

Per coniugare questi due obiettivi il Families Plan stabilisce che le famiglie a basso e medio reddito non debbano pagare più del 7 per cento del loro reddito per l’assistenza all’infanzia (con un risparmio medio stimato in circa 15mila dollari per famiglia). In secondo luogo, si interviene sugli operatori, aumentando i salari (fino a 15 dollari l’ora) e agevolando l’accesso a una formazione gratuita di qualità. Non solo dunque più investimenti pubblici ma anche migliori condizioni di lavoro e per non finire finanziamenti in favore dei provider privati vincolati al miglioramento della qualità delle strutture e soprattutto a integrare il costo reale del lavoro, evitando così la trappola dei lavori pagati al massimo ribasso.

Il costo del lavoro

Troppo spesso, non solo in America dove le prestazioni sociali pubbliche sono limitate, ma anche in Europa, la compressione del costo del lavoro è stato l’unico mezzo per garantire a prezzi di mercato l’accesso a molti servizi alle persone, dalla cura dell’infanzia, agli anziani, per non parlare della non autosufficienza, al cui interno è addirittura il lavoro nero in molti paesi (e tra questi l’Italia) a coprire la maggior parte dell’offerta di lavoro. Parliamo di settori ad alta intensità di lavoro che soffrono strutturalmente di un problema di bassi salari, ma che dal punto di vista occupazionale hanno conosciuto una crescita ininterrotta in questi anni.

In Europa tra il 2008 e il 2019 nei servizi sociali e sanitari sono stati creati circa 2,8 milioni di posti lavoro (media Eu28). Per molti di questi servizi i problemi riguardano semmai la pressione al ribasso nel costo del lavoro e la diminuzione degli investimenti fissi. In Italia la quota di investimenti pubblici sulle infrastrutture sociali ha subìto un tracollo tra il 2007 e il 2017 – tra i 10 e i 12 miliardi in meno – con ripercussioni negative sulla capillarità delle prestazioni, specie nelle regioni del Mezzogiorno, dove alla perdurante stagnazione economica si è aggiunto il peso della desertificazione sociale.

Il Pnrr italiano

Tra servizi sociali e investimenti sulla sanità territoriale (senza considerare gli investimenti in tecnologia sanitaria) il Pnrr italiano ha previsto un incremento di spesa pari rispettivamente a 2,9 e 7 miliardi euro. Si tratta di risorse che, sia pure molto inferiori rispetto al precedente piano, andranno a potenziare la rete di presa in carico integrata tra sociale e sanitario, con ricadute anche sull’occupazione, dirette e indirette.

Senza tuttavia una adeguata attenzione al sostegno della domanda delle famiglie, all’accessibilità e sostenibilità gestionale, il rischio è quello di ricadere nel circuito dei bassi salari e della svalutazione del lavoro. Nella sanità privata è solo con la pandemia (a ottobre 2020) che si è arrivati al rinnovo del contratto collettivo, dopo sette anni di mancati rinnovi e opposizioni a miglioramenti contrattuali. Nei servizi di cura la contrattazione è ancora più frammentata e i salari più bassi.

Il Piano Biden ci parla di un approccio diverso, in cui accanto agli investimenti infrastrutturali è centrale la questione dell’accesso e della qualità del lavoro. Perché non immaginare allora anche in Italia dei fondi ad hoc per l’integrazione dei salari e dei costi gestionali, così da avere servizi di qualità e porre fine una volta per tutte a quella rincorsa al massimo ribasso, tanto negata, quanto nei fatti praticata in molti processi di affido in esterno?

Ma lo stesso vale per l’innovazione sociale e per il sostegno al terzo settore, da non lasciare a soli meccanismi di incentivazione finanziaria o a iniziative slegate da obiettivi di creazione di nuova occupazione. Occorre moltiplicare su scala nazionale il parco di “buoni progetti” da finanziare e incubare sul territorio, soprattutto in quelle aree di intervento che più possono dare in termini di nuova occupazione: sostenibilità ambientale e sociale, medicina territoriale, progetti di contrasto al Covid-19, riuso e rifunzionalizzazione degli spazi urbani. Insomma, un piano di investimenti che riconosca il valore sociale dell’occupazione nel welfare e nella cura delle persone e dei luoghi, anche in connessione con le politiche attive del lavoro.

Mai come in questo momento dal semplice mismatch tra domanda e offerta di lavoro (che può andare bene in condizioni di piena occupazione, molto meno di fronte a una crisi strutturale come quella che stiamo attraversando), le politiche attive devono tornare a incrociare la creazione diretta di nuova occupazione, con un’azione più forte e capillare tanto dello stato, quanto degli attori sociali, terzo settore, parti sociali, imprese private. Al di là dei numeri, al cui cospetto il Next generation Eu quasi impallidisce, l’esempio americano segna soprattutto un cambio di paradigma, il cui impianto può contribuire a rivedere il modello sociale, non più all’insegna di tagli come è stato negli anni più recenti ma della crescita inclusiva e della valorizzazione del lavoro.

Andrea Ciarini è professore di Sociologia economica e Sociologia del welfare alla Sapienza di Roma. È membro della Commissione di valutazione del reddito di cittadinanza del ministero del Lavoro.

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