Qualche anno fa il sociologo Luca Ricolfi ha intitolato un suo libro con la domanda delle domande: Perché siamo antipatici? Si riferiva alla sinistra: e individuando una rottura tra intellettuali e popolo precorreva un dibattito che sarebbe poi divenuto globale. Eppure quella rottura, che si è resa visibile a partire dagli anni Novanta, era in qualche modo connaturata alla sinistra fin dall’origine. Così come, fin dall’origine, la sinistra è stata oggetto di paranoie e proiezioni fantasmatiche.

Il “partito del progresso” sorge nel Settecento con l’intenzione di razionalizzare il mondo. Mettere al potere la classe intellettuale, questo è essenzialmente il discorso filosofico della modernità. Nasce dunque da un paradosso, che Nietzsche intuirà lucidamente: si trattava di annientare le ineguaglianze preesistenti instaurando un altro ordine di ineguaglianze, socialmente legittimato. Un paradosso continuamente riaffiorato nei dibattiti degli ultimi duecento anni, e la cui ultima incarnazione coincide con la cosiddetta “ideologia woke”.

Per alcuni, un programma di correzione delle storture della società capitalista; per altri un incubo totalitario e moralista. Il problema è che si tratta di entrambe le cose. Questo paradosso si chiama modernizzazione.

Chi inventa le parole?

Da quando il mondo si è spostato su Internet - tutto quanto: svago, lavoro, socializzazione, dibattiti e litigi - decine di parole americane sono entrate nella nostra lingua parlata - pardon, scritta. Da “cringe” a “blackface”, passando da “misgendering” e appunto “woke”. 

Per conoscerle tutte bisogna avere un master in un’università della Ivy League, o tantissime ore da perdere in rete.

Tuttavia non padroneggiarle ci espone al rischio di fare la figura degli zotici. Nel migliore dei casi. Nel peggiore ci espone a figuracce ed errori comunicativi, i famosi “fail”, ed eventualmente alla minaccia più grande: la famigerata “cancellazione”. 

La parola è un po’ esagerata, perché nessuno viene effettivamente cancellato di peso come i personaggi della Storia infinita dall’avanzata del Nulla. Ma sicuramente scrivere qualcosa di “cringe” (imbarazzante) può alienarci qualche simpatia mentre fare una foto in “blackface” (cioè con il volto dipinto di nero per imitare un africano) può distruggerci la reputazione.

Sebbene nessuno in Italia conoscesse questa parola anche solo cinque anni fa, la RAI si è impegnata a non ricorrere mai più a questa pratica dopo avere capito quanto potesse essere offensiva.

Quanto al “misgendering” (rivolgersi a qualcuno con un pronome differente da quello in cui si riconosce) non tutti sanno che viene considerato come “hate speech” (parola d’odio) nei regolamenti di piattaforme che usiamo tutti i giorni, come Facebook, Twitter e TikTok. In effetti la cancellazione indica uno spettro di sanzioni che va dal “ban” (essere sospesi temporaneamente o definitivamente da un social network) alla damnatio memoriae, passando da diversi fastidi intermedi: polemiche, boicottaggi, licenziamenti. 

Ma chi inventa e diffonde tutte queste parole, assieme alle nuove regole di comportamento? Sono appunto i cosiddetti “woke”, ovvero i giovani attivisti che hanno ereditato le battaglie storiche del progressismo americano degli anni Novanta per aggiornarle all’era di Internet. Woke nel senso un po’ mistico che si sono destati dal loro sonno dogmatico, hanno aperto gli occhi e finalmente hanno visto il tessuto d’ineguaglianze di cui è fatto il mondo: alleluia.

Il dilemma della modernizzazione

Immersi nello stile di vita imperiale e destinatari del plusvalore mondiale, i progressisti americani tentano di sbiancarsi l’anima correggendo perlomeno le ineguaglianze relative a sesso e genere. Lo fanno proponendo una codifica piuttosto fitta della vita sociale, che crea confusioni e resistenze: tradendo la loro appartenenza alle élite universitarie, i woke sembrano intendere la virtù come una competenza da acquisire.

Una questione di capitale culturale, una burocratizzazione dei rapporti sociali, insomma la prosecuzione con altri mezzi (telematici) del discorso filosofico della modernità. 

Come sempre il progressismo rischia di creare nuove ineguaglianze col pretesto di combattere quelle antiche. Oltre al cosiddetto “privilegio esorbitante” del possesso della valuta di riserva mondiale, garantita dalla potenza del loro esercito, gli USA intendono arrogarsi anche il privilegio esorbitante dell’emissione del codice etico-linguistico egemone, attraverso le loro università e i loro media. 

Comprensibilmente i woke stanno antipatici a molte persone, e non soltanto tra i più privilegiati. In Francia, la reazione alle politiche di sensibilizzazione alle questioni di genere degli ultimi due governi ha spinto molti musulmani ad abbandonare le scuole pubbliche. Il MeeToo si è anche portato via uno dei leader carismatici della comunità, nonché abusatore seriale, il teologo Tariq Ramadan.

Nel Regno Unito, segmenti del femminismo - bollati come trans-escludenti - si sono ribellati allo sdoganamento di forme di sfruttamento come la prostituzione e la gestazione per altri. Dappertutto, la popolazione meno istruita subisce come una prepotenza lo zelo prescrittivo dei commessi dell’ordine dominante. Quanti sono gli “shitstorm” (polemiche digitali) causati dalla reazione “triggerata” (offesa) di qualche attivista da tastiera?

Il complotto woke

D’altra parte abbiamo visto crescere In Italia, attorno alle rivendicazioni su razza e genere, una vera e propria paranoia, o come si dice un “panico morale”.

Come se certe (pessime) abitudini radicate nel tempo fossero intoccabili, come se certe domande non meritassero di essere sollevate, come se i woke fossero dappertutto e intenzionati a prendere il controllo della società italiana. I più “triggerati” oggi sono loro: gli anti-woke. Che ormai vedono woke anche dove non ci sono.

Ma l’Italia non è l’America, e non è nemmeno la Francia o il Regno Unito: qui i gender studies nei programmi scolastici non si sono mai visti, le leggi anti-discriminazione sono ferme a vent’anni fa, i licenziamenti per misgendering sono di là da venire, e per parlare di una cameretta in disordine si dice “che ambaradàn”, rievocando la tragedia dell’Amba Aradan, in cui l’esercito italiano massacrò migliaia di etiopi del 1936. Qui il razzismo non è soltanto “sistemico”, cioè prodotto da meccanismi impersonali, ma in molte circostanze sistematico, deliberato e istituzionale.

Certo s’incontra sui social media molta suscettibilità, per citare Guia Soncini, e probabilmente è questo che hanno in mente molti intellettuali - da Michele Serra e Paola Mastrocola assieme a Ricolfi nel loro recente Manifesto per il libero pensiero (La nave di Teseo) - quando denunciano la minaccia della cancel culture.

Tutti loro, come tutti noi, forse come tutti e basta, hanno subito qualche shitstorm per una parola di troppo, e una shitstorm non è qualcosa che ci si scrolla facilmente di dosso. È una cicatrice che non va più via: influenzerà per sempre il modo in cui comunicheremo, richiamandoci alla massima precauzione, forse all’afasia, oppure accentuando le nostre idiosincrasie.

Ma per ogni shitstorm lanciata da qualche progressista zelante ci sono migliaia di insulti sessisti o razzisti sulle pagine social dei quotidiani di destra. Cominciamo da quello.

Né con i woke né con gli anti-woke

È forte la tentazione di concludere con alcune banalità che possono effettivamente ispirare una condotta ragionevole: bisogna rifuggire gli opposti estremismi, eccetera. Ma una buona sintesi non consiste nel dire che tutti hanno torto per tornarsene soddisfatti nella propria torre d’avorio, bensì nel riconoscere che tutti hanno ragione. Hanno ragione i woke a denunciare le nostre cattive abitudini comunicative e hanno ragione gli anti-woke a rifiutare che sia una piccola élite benpensante a imporre alla società le sue regole di comportamento. 

E cosa ci facciamo con queste ragioni? Innanzitutto dovremmo smettere di distinguere tra minoranze buone e minoranze cattive: tutte le rivendicazioni devono essere ascoltate, sebbene siano incompatibili tra loro senza uno sforzo titanico di mediazione. Soprattutto dovremmo dare più ascolto alle comunità subalterne, con le loro esigenze concrete, e meno ai loro rappresentanti autoproclamati, perduti in polemiche gratuite.

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