L’amministrazione pubblica e la politica non aiutano a creare le condizioni dello sviluppo, e una bella fetta dei grandi media ce lo ricorda ogni dì: la crescita viene dalle scelte delle imprese. Se non cresciamo è soprattutto perché esse non investono abbastanza sul loro, e nostro, futuro. Ora c’è un rimbalzo d’attività, post Covid-19, ma rischiamo di tornare presto alla crescita anemica. Come ogni discorso generale, questo ignora la diversità delle situazioni; molte nostre medie imprese danno un grande contributo al paese, ma a livello di sistema i fatti sono quelli, è inutile ripetere la nota giaculatoria di dati. Le cause del fenomeno, e le sue conseguenze, sono di grande rilievo; per molte non c’è piano di ripresa e resilienza che tenga.

Nei giorni scorsi, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, e il suo predecessore, Mario Draghi, oggi presidente del Consiglio, si sono ripartiti i ruoli, in una riedizione del classico duo di poliziotto buono e poliziotto cattivo (good cop, bad cop). La relazione annuale del primo ha elencato a fine maggio a Roma i limiti di quelle stesse imprese, le cui lodi il secondo ha cantato il giorno dopo. Se Draghi, che deve innescare un circolo virtuoso di fiducia e investimenti, parlava in un’Emilia che ospita molte imprese dinamiche, a dire la nuda verità è Visco.

Egli ci ricorda che in Italia le piccolissime, con meno di 10 dipendenti, “impiegano quasi il 50 per cento degli addetti, il doppio che in Francia e Germania”, ma è tutta la scala ad essere orientata al bonsai. È scarsa l’ambizione nei settori innovativi, perdura la specializzazione produttiva in ambiti tradizionali; insieme alle piccole dimensioni, ciò genera «un circolo vizioso di bassi salari e modeste opportunità di impiego che scoraggiano gli stessi investimenti in istruzione».

In sostanza, abbiamo pochi laureati e tecnici qualificati per via del basso valore aggiunto delle nostre produzioni. Sono queste a determinare i livelli di istruzione, non viceversa; se le imprese volessero più laureati, li cercherebbero all’estero, il che non risulta. Al motore della crescita italiana manca la forza degli investimenti privati; ci pensa purtroppo il maggior sindacato imprenditoriale a sviare la riflessione pubblico.

Così la politica non sa che l’Italia non cresce semplicemente perché il livello dei nostri prodotti non è abbastanza alto. Non è solo la burocrazia pubblica a rinviare sempre, anche i privati lo fanno. Pensiamo agli alti lai levatisi alla notizia che l’Unione europea vuole, nientemeno, far rispettare il divieto delle plastiche su prodotti monodose a partire da luglio. Protesta anche il governo più europeista della storia recente, quasi questo fosse un Ukase piombato da Mosca sulla Mongolia esterna. La cosa era nota, ma i nostri produttori non sono pronti, forse contagiati dal bacillo del Milleproroghe.

Le grandi imprese private sono quasi sparite, le poche degne del nome tendono a vedere nella globalizzazione un motivo per stabilire altrove la sede legale o il domicilio fiscale, trattando l’Italia come un parente povero di cui si vergognano. Oggi le nostre grandi imprese che non emigrano sono Eni, Enel, Terna, Leonardo, Fincantieri, forse Tim, residui della stagione in cui le imprese di stato e la Cassa del Mezzogiorno ci tirarono fuori dalla guerra. È merito del management di alcune di queste aver resistito alle invasioni dei partiti più di quanto abbiano fatto spesso gli omologhi privati, rispetto ai loro grandi azionisti.

Freni alla crescita

Discorso a parte meriterebbero le grandi utility locali, ormai trasformate in bancomat per i comuni, a scapito dei necessari investimenti. Le grandi ancore semi-pubbliche non bastano a navigare nel nuovo mondo! Meno male che il “quarto capitalismo” e le multinazionali tascabili ci tengono a galla, ma la loro indubbia forza non può da sola trarci fuori dalle secche. Pesano ancora troppo le imprese in cui la famiglia imprenditoriale, a suo tempo ingrediente essenziale del “miracolo economico”, è divenuta un freno alla crescita. Di qui la frequente rinuncia ad investimenti che sarebbero nell’interesse dell’impresa, ma che metterebbero a rischio il controllo, e l’unità della famiglia. Perciò ai vertici aziendali vanno i membri del clan, escludendo chi non sia nato nella culla giusta. Per le imprese, così private di un vero gruppo di direzione, si creano pian piano le premesse per la cessione, spesso a compratori esteri propensi a traslocare altrove il quartier generale.

Prima di morire il fondatore di Esselunga raccomandò alle eredi di cederla, ritenendo la gestione peso eccessivo per una persona sola. Perché non ha creato un vero team di gestione? Ora sarà probabilmente ceduta a concorrenti esteri, che un team ce l’hanno. La naturale classe dirigente del paese, la grande borghesia industriale e finanziaria, vede il degrado politico e amministrativo ma non se ne cura, salvo episodiche escursioni in partibus infidelium, dopo le quali torna sdegnata alla sicurezza dei propri accampamenti.

Eppure, da come useremo i fondi del Next generation Eu, cioè se li useremo davvero per i nostri figli e nipoti, e non per addolcire la vecchiaia della generazione più fortunata della nostra storia, dipenderà il futuro non solo nostro, anche della Ue e in definitiva della sua stessa sopravvivenza. O ci tiriamo fuori dalle secche, anche con i fondi del Ngeu, o ci incliniamo su un fianco e con noi un’Europa che, monca dell’Italia, non sarebbe neanche pura espressione geografica.

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