Nelle democrazie occidentali il momento populista è vecchio di almeno due decenni e ha segnato il carattere del Ventunesimo secolo. E’ moneta corrente sui quotidiani e al centro di polemiche accese tra gli studiosi, poiché lo sforzo analitico per conoscerne gli aspetti non è mai libero da giudizi di valore.

L’unica convinzione condivisa è che non si tratti di un fenomeno effimero. Il populismo è qui per restare. Nonostante la sconfitta di Donald Trump, il più spettacolare tra i leader populisti contemporanei anche perché a capo del più grande paese democratico.  Ma sulle implicazioni del populismo l’incertezza è massima. E’ un rischio o un’opportunità per la democrazia? Scuotere l’agonizzante democrazia dei partiti non è forse un bagno freddo necessario?

La versione di Rosanvallon

Con Pierre Ronsavallon, professore emerito del College de France e uno dei maggiori teorici della democrazia, abbiamo discusso di questi problemi in una recente conferenza online organizzata dal Gaidar Forum di Mosca (Center for Contemporary Political Studies). Il suo Le siècle du populisme (2020) è stato criticato su Le monde diplomatique da Chantal Mouffe, la leader teorica della galassia del populismo di sinistra al cui suo defunto marito, Ernesto Laclau, si deve On Populist Reason (2005) il lavoro più organico sulla politica populista.   

Sono due le direttrici del lavoro di Rosanvallon: l’analisi degli elementi del populismo al potere e l’individuazione delle soluzioni alla sfida populista.  Circa l’analisi, Rosanvallon situa il populismo nella democrazia e ne individua sei elementi. Il primo è l’elezione -- il populismo radicalizza un tipo di democrazia che riposa sul suffragio.

Rosanvallon non analizza il modo in cui il populismo usa e concepisce le elezioni, ovvero come acclamazione plebiscitaria del leader dell’unico popolo vero – con conseguenze potenzialmente destabilizzanti come abbiamo visto con Trump. Il secondo elemento è il popolo, non come finzione giuridica o l’insieme dei cittadini, ma come costruzione per opposizione rispetto all’establishment. Il terzo elemento è il potere sovrano – recuperare sovranità per difendere la nazione con politiche di chiusura (protezionismo e anti-immigrazione).

Il quarto elemento sta nel ruolo delle emozioni che nelle società post-classiste hanno tanto peso quanto gli interessi e che la retorica populista sa sfruttare bene. Connesso ad esse è il quinto elemento, il ruolo del leader, che rivendica una rappresentanza come incarnazione per cui non ha bisogno di un parlamento per essere rappresentativo.

L’ultimo elemento è l’evoluzione del regime, nel senso che il populismo al potere è capace di andare oltre i limiti dalla democrazia costituzionale.  Parliamo oggi di “momento populista” perché tutti questi elementi si presentano contemporaneamente. 

Rispondere alla sfida populista

La seconda direttrice della ricerca di Rosanvallon riguarda la ricerca sulle soluzioni alla sfida populista. Questa è la parte più originale e complessa del lavoro di Rosanvallon, coerente ai suoi studi sulla democrazia. Egli propone di procedere dalla “funzionalità democratica”, ovvero dalle quelle specifiche funzioni che le istituzioni create nel corso degli ultimi due secoli avevano il compito di svolgere: controllo, sorveglianza, inchiesta, monitoraggio, deliberazione, produzione di legittimità.

A consentire l’esercizio di queste funzioni sono fin qui stati i partiti, le elezioni, i parlamenti, la divisione dei poteri, lo stato di diritto. Oggi, questi mezzi sono inefficaci ed hanno perduto legittimità. Per esempio, il parlamento non svolge più il ruolo di sorveglianza e controllo del governo, o meglio solo l’opposizione lo fa mentre la maggioranza è schiacciata sul governo, tanto che il potere legislativo ed esecutivo non sono proprio poteri separati. E che dire della funzione deliberativa?

Questa esisteva nel vecchio parlamento ottocentesco fatto di gentlemen eletti da pochi elettori che discutevano, dissentivano e cambiavano idea.

I partiti hanno cambiato il parlamento radicalmente e introdotto l’appartenenza partigiana espungendo la deliberazione. Caduta è anche la funzione d’inchiesta e di monitoraggio, una perla ormai rara, anche perchè gli stessi media sono ormai protagonisti della battaglia politica piuttosto che cani da guardia delle istituzioni.

Emerge da questa analisi che il momento populista è sintomo di una crisi di sistema. Ma mentre ne mette a nudo le inefficienze, propone rimedi che incancreniscono i problemi invece di risolverli.

Secondo Rosanvallon, il populismo è alla fine non realmente “radicale” proprio perché incastonato nella logica del sistema che critica: esso cerca di riavviare il vecchio motore del “politico”, ovvero la sovranità istituzionale e l’apparato decisionale, e lo fa semplificandone le funzioni.

In sostanza, il populismo è la nostalgia di un sistema moribondo – e un leader forte e un meccanismo statale forte sono le sue strategie di ossigenazione.

La delusione

L’insoddisfacente esito populista sta, secondo Rosanvallon, nel fatto che non risponde alle disfunzioni che mette a nudo. Per esempio, denuncia la distanza dai cittadini dei politici e delle istituzioni che essi abitano. Ma poi agisce esattamente come i politici tradizionali, sfruttando al meglio i loro privilegi e il dominio dell’audience.  I populisti non hanno alcun interesse a conoscere le trasformazioni sociali e a rappresentarle. Al contrario, occorre smuovere questo interesse per riuscire a costruire un’alternativa al populismo.  Come procedere?

Le categorie analitiche e organizzative come la classe o la religione (pensiamo all’importanza del partiti cattolici in Europa) non sono adatte a leggere lo scollamento né a rappresentare le nuove divisioni sociali. Le classi erano gruppi omogenei. Oggi l’omogeneità è al massimo nei rendiconti statistici.

Quindi occorrerebbe prestare attenzione non ai dati o ai paradigmi oggettivi, bensì alle narrative e alle simbologie attraverso le quali la parti della società si fanno conoscere e si autorappresentano.

Narrative che fanno perno su emozioni di contrasto, come la vergogna, la rabbia, l’indignazione (da parte dei più diseredati) e all’opposto il disprezzo, l’umiliazione, il disgusto (da parte dei benestanti).  Emozioni che denotano una società divisa in due, per stili di vita e gusti estetici, per l’uso della lingua e per la mentalità sui diritti e le relazioni tra i sessi, e poi per i luoghi abitati.

Ora, come nel caso delle istituzioni, anche in questo caso il populismo sente il problema e usa la forza delle emozioni, ma non ha interesse a comprenderne le radici, a decodificarne la narrazione. Quel che vuole è sfruttare il disagio per conquistare il potere. Non è interessato all’esperienza sociale e politica che dà vita a quelle emozioni. E’ da qui che, secondo Rosanvallon, l’antipopulismo dovrebbe procedere.

Reinventare la rappresentazione del sociale

Se si vuole rispondere alla sfida populista, si deve “reinventare” la rappresentazione politica del sociale. Rosanvallon crede che la strada non sia quella di rifare i partiti, che tra l’altro non possono essere costruiti a tavolino e che sono comunque espressioni di una peculiare forma del sociale.

La reinvenzione della rappresentazione politica va affrontata in altro modo, per esempio ponendosi questa domanda: come rendere presente nel pubblico (la politica) i bisogni dei cittadini di una società disaggregata che si esprime non solo con interessi ma anche con emozioni?

Secondo Rosanvallon, sono le forme narrative (via arte, cinema o manifestazioni di piazza) e la comunicazione (mezzi digitali, relazioni di quartiere, nelle scuole ecc.) che dovono interessarci se vogliamo rigenereare la rappresentanza democratica.

La quale, anche quando funzionavano bene le istituzioni, non era mai solo istituzionale. Si tratta ora di creare nuovi canali di rappresentazioni delle forme sociali di contestazione e di manifestazione dei bisogni.

Insomma, il populismo non è abbastanza radicale perché mentre critica ciò che merita di essere criticato, non ha risorse per modificare la funzionalità democratica del sistema.

Non le ha perché  è un residuo della tradizionale politica istituzionale che instiste sugli strumenti decisionali e ha una visione stretta della volontà generale – referendum, elezioni, leader. Ma se è vero che le istituzioni sono la struttura dell’agire politico ciò è perchè esse sono la memoria della volontà generale, cioè della democrazia; e lo sono anche le istituzioni indipendenti dal sistema decisionale, quelle che nascono e operano nella società.

Le cooperative, le società di mutuo soccorso, i circoli di cultura furono nell’800 e parte del ‘900 luoghi di produzione della narrativa sociale. Prepararono il terreno per i partiti politici. Si tratta oggi si riattivare l’equivalente di ciò che furono quei luoghi antichi di narrazione sociale.  

La strada immaginata da Rosanvallon è complessa ma astuta: usare al meglio la critica populista per neutralizzare il populismo. Mettere in discussione le istituzioni tradizionali per riattivare la funzionalità democratica del controllo, della sorveglianza, della rappresentanza e della legittimità. Ricominciare dal sociale per costruire una nuova rappresentanza politica nell’età della democrazia post-partitica.

© Riproduzione riservata