Il programma elettorale della coalizione vittoriosa chiedeva la riforma della Costituzione in senso presidenziale; la Lega voleva anche l’autonomia regionale differenziata (Ard). La premier Meloni, non potendo mantenere le promesse ai clientes, vuole spingere sulle riforme ma, se realizzate assieme, esse stroncherebbero la Repubblica; l’inevitabile referendum confermativo sarebbe molto insidioso.

L’Ard, oltre a staccare per sempre le regioni ricche dalle povere, costringerebbe le imprese a seguire i diversi regimi scelti da ogni regione nelle varie materie. Uscito di scena il presidenzialismo, che annullerebbe i poteri del presidente (amata figura chiave dei nostri equilibri), ora l’astuta Meloni vuole il premier forte, contando forse sul know how di Matteo Renzi nei referendum confermativi. Lede i poteri del presidente anche questa vaga “Terza repubblica”, un imbroglio a partire dal nome, essendo la “Seconda” solo uno slogan di Publitalia.

Se ne parlerà un po’, ma questo guazzabuglio scemerà, non serve a un governo che ha battuto il record nell’abuso dei decreti legge (dl), il solo moncone di potere legislativo concesso al governo, titolare del potere esecutivo; nel nostro sistema le leggi si discutono in parlamento, e i dl non convertiti entro 60 giorni decadono.

In un anno Meloni ha emanato quasi un dl a settimana, in genere privi dei requisiti di necessità e urgenza. Essi sono anche farciti di ingredienti eterogenei; il senatore Lotito, per caso proprietario della Lazio, ha infilato nel dl Caivano una legge Salva calcio! Contro tale malvezzo si sono battuti, con pochi successi, i nostri presidenti.

Gli abusi esistono da tempo, ma aumentano di numero e gravità. L’assetto istituzionale trasfigura, portandoci verso qualcosa che somiglia al cesarismo; si vedano Michele Ainis, “Montesquieu”, Luigi Corbani e altri. Anche nei rari casi in cui scrive le leggi, il parlamento sottostà alla tagliola dei voti di fiducia. Non stupisce che, in un sistema in via di degrado, faccia eccezione il recente intervento sul disegno di legge Capitali; se il legislatore entra a piedi uniti su specifici contrasti finanziari, ci induce a pensar male.

Il cesarismo si vede nel cammino della legge di Bilancio; andava portata alle camere entro il 20 ottobre ma quando il 15 il governo l’ha approvata in bozza, sui media si sono abbattute le dichiarazioni dei partiti al governo; per intestarsi le misure a favore di una clientela, o per osteggiare quelle lesive di un’altra. Al 30 ottobre le camere non hanno il testo del ddl.

«Il primo governo eletto degli ultimi dodici anni», come questo, sfregiando la Costituzione, ama definirsi, mostra icasticamente quale ruolo vede per il parlamento. Per fermare il caos Meloni vieta emendamenti di maggioranza ma, nonostante i suoi alti auspici, è in parlamento che le leggi si discutono e si votano. Non aiuta il perdurante abuso di una legge che nega il potere di scelta agli elettori, difatti in costante calo. Anziché invertire la marcia, Meloni s’inoltra sulla via da altri aperta; così, se il parlamento diviene un guscio vuoto, il premier forte non serve più.

Per chi, titolare del potere esecutivo, così indossa anche l’abito legislativo, è il migliore dei mondi possibili. Nella nostra derelitta Repubblica la separazione dei poteri finisce fra le buone cose di pessimo gusto. La riforma istituzionale sfumerà forse nella nebbia perché il governo ha strumenti semplici e indolori per avviare la Repubblica parlamentare alla tomba.

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