Al prezzo per lei evidentemente non così esoso di rinnegare gran parte delle sue convinzioni politiche del passato (su quelle che dovrebbero essere pre-politiche come i diritti civili continua invece a mostrare la sua incrollabile fede di estrema destra), Giorgia Meloni si è guadagnata l'ingresso alla Casa Bianca. Al cospetto di un presidente, Joe Biden, da cui tutto la differenziava sino all'altro ieri, ha mostrato il suo nuovo abito democristiano, aggettivo che le sarebbe sembrato offensivo, un look che ormai indossa con disinvolta noncuranza.

Riannodando alcune radici lunghe della nostra politica estera, ha scelto di essere totale vassalla di Washington, come già fu ai tempi della Guerra Fredda, come ora riprende a essere nel nuovo dualismo tra democrazie e dittature. La scelta, peraltro obbligata, colpisce nei modi più che nella sostanza per via dell'adesione acritica, senza se e senza ma, che conferma la sovranità limitata di un Paese che non riesce a essere protagonista o, almeno, a difendere uno scarto di linea rispetto a quanto si decide “colà dove si pote ciò che si vuole”, per citare Dante.

Come sono lontani i tempi in cui la destra che le è stata nutrice, si schierava contro “l'imperialismo americano”, retaggio di una propaganda di mussoliniana memoria a lungo protratta nei tempi della nostra democrazia sotto tutela e anche oltre. E come sembra lontano anche il tempo (ed era solo il 2020) in cui il miliardario Donald, proprio l'opposto di Joe Biden, era il suo totem di riferimento e lei presenziava ai convegni dei fanatici del trumpismo, dottrina che postulava l'amicizia con la Russia di Putin e che conta ancora dei nostalgici nella maggioranza di Roma.

La neo atlantista

Scavalcando atlantisti di più antica data e di più provata credibilità, Giorgia Meloni si è mostrata la più intransigente nel difendere le posizioni pro Ucraina, whatever it takes, avrebbe detto il suo predecessore Mario Draghi e ora si accinge ad abbandonare l'accordo con la Cina sulla nuova via della seta siglata dal primo governo Conte. Sono i doni più importanti che porta in dote in cambio della stretta di mano nello Studio Ovale. Soprattutto nell'età dello strapotere mediatico i simboli contano e l'incontro con il presidente americano è il premio di tanta fedeltà, persino dell'accettazione nel consesso dei leader affidabili. Fino a un certo punto, però. Perché esistono i simboli ed esiste la sostanza.

E allora va ricordato che, nelle ore più drammatiche della crisi russa con la sfida del capo della Wagner Evgenij Prigozin al Cremlino, un mese fa, Joe Biden si era consultato con Sunak (Regno Unito), Scholz (Germania) e Macron (Francia) dimenticandosi di Palazzo Chigi salvo porre rimedio all'«errore atlantico», come fu definito, con tre giorni di ritardo. Un'amnesia rivelatrice di quanto l'Italia conti nei momenti delle emergenze in cui traballa il già precario (dis)ordine mondiale niente affatto compensata dall'odierno protocollo di cortesia.

E forse da attribuire alle scorie di sospetti che ancora circolano nelle cancellerie verso il governo di Roma, nel quale insistono tendenze sovraniste, di simpatia verso gruppi estremisti (la stessa Meloni continua ad amoreggiare con i neofranchisti spagnoli di Vox), personaggi come l'Orban della democrazia illiberale, addirittura il Putin della democrazia obsoleta oltre che del sogno zarista, dello spazio russo da riallargare a suon di bombe. Senza contare la distanza abissale sui diritti tra l'America liberal di Biden e l'Italia oscurantista della nostra premier. Temi questi su cui si è preferito sorvolare. Per carità di patria e, da parte di Washington, per gli interessi superiori della geopolitica.

© Riproduzione riservata