Il primo momento di verità, nella conferenza stampa di domenica, è stato quello in cui il presidente del Consiglio ha descritto un paese diviso, percorso da rabbia e frustrazione, afflitto da crescenti diseguaglianze. Una rappresentazione distante dall’ingannevole ottimismo delle ultime settimane.

Il secondo momento di verità è stata la risposta di Conte alla domanda: cosa vi ha convinto a cambiare strategia, a introdurre, se non un lockdown, un semi-lockdown? I dati sul contagio, semplicemente. Numeri che, da soli, decretano il fallimento delle misure disposte fin qui per la prevenzione dell’epidemia.

Questi due passaggi segnalano la presa d’atto da parte del governo di un errore esiziale: aver perseguito la salvaguardia dell’economia a scapito della protezione della salute, con il risultato di minare contemporaneamente la tenuta del sistema sanitario e quella del tessuto economico e sociale.

Forse per questo, e nonostante la correzione di rotta, la disposizione di nuove ed energiche misure non riesce a dissipare i dubbi circa la capacità della nostra classe politica – e in realtà di quella di quasi tutti i paesi del mondo – di pensare e agire all’altezza della sfida storica, epocale, della pandemia di Covid-19. Parlo della classe politica tutta.

Perché se la coalizione di maggioranza resta fragile e divisa, nonostante l’enormità del compito che le è toccato in sorte, l’opposizione si esercita in giravolte e proclami contraddittori.

La tendenza generale è a leggere il presente restando aggrappati a schemi del passato, nell’attesa di un improbabile ritorno ai funzionamenti noti e ai problemi ordinari. Questo, però, non è possibile.

Volenti o nolenti, i decisori politici devono confrontarsi con una situazione in cui, come ha scritto il sociologo tedesco Hartmut Rosa, «molte catene processuali sono state interrotte, molte abitudini spezzate, molti ingranaggi inceppati».

Siccome le società complesse fanno largamente affidamento proprio su regole di funzionamento e d’interazione fisse e predeterminate, questa condizione di assoluta eccezionalità appare non solo sconcertante dal punto di vista pratico, ma anche difficile da afferrare sul piano cognitivo.

Ciò risulta tanto più arduo per una politica che, da decenni, ha perso capacità di visione. Che, in un processo di costante svalutazione, si è ridotta soprattutto a pratica di amministrazione della cosa pubblica con “cassette degli attrezzi” già pre-costituite. Ora che queste appaiono irrimediabilmente obsolete, il rischio di smarrimento si fa evidente.

Eppure, è proprio quando non può affidarsi a un libretto di istruzioni che la politica torna alla sua essenza più propria, a quell’«agire» libero di cui parlava Hannah Arendt, distinto dal semplice «fare» del costruttore.

L’agire è ciò che sostiene lo spazio della politica perché è la capacità di dare vita a qualcosa che ancora non c’è.

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