Non ho soluzioni per i problemi del Pd, solo tre idee per orientarmi. La prima è che non bisognerebbe giudicare un partito per i voti che prende: si deve guardare all’identità politica, agli interessi che difende, alle proposte, alla capacità di governo dei candidati. I voti devono corrispondere agli elettori che apprezzano la sua sostanza. Non dev’essere un dentifricio di successo che è quasi uguale agli altri ma ha fatto bene marketing.

Un buon Pd, per esempio, potrebbe accontentarsi del 20 per cento dei voti, se solo un elettore su cinque approva ciò che propone ed è in grado di fare. Il problema del Pd non sono i voti ma la scarsa identità, l’incapacità di fare scelte coerenti.

La seconda idea è che la scelta essenziale che il Pd non riesce a fare è quella fra la sinistra liberale e quella socialista.

Sono termini imperfetti, equivoci, ma forse si capisce. Perché scandalizzarsi se i suoi voti e i suoi uomini hanno la tentazione di avvicinarsi ad Azione o ai Cinque stelle? Sono rappresentanti molto imperfetti delle due sinistre.

Ma aiutano a intuire la natura della scelta. Per massimizzare goffamente i voti il Pd ha evitato di scegliere, non solo in occasione delle coalizioni del 2022.

Che differenza c’è fra sinistra liberale e socialista? Fatemi semplificare: la sinistra è la politica attenta ai beni pubblici.

Per la sinistra i beni pubblici sono più numerosi che per la destra: non solo giustizia e difesa, ma istruzione, cultura, sanità, ambiente, limiti alle disuguaglianze di reddito, ricchezza e potere, diritti di definire il proprio gender e i tempi dell’esito di una propria malattia terminale, biodiversità della società, e tanti altri.

Quando un bene è pubblico, il suo consumo da parte di un individuo va a beneficio di tutti, della convivenza civile.

Se un bene è pubblico, non può essere prodotto del tutto privatamente: lo Stato deve intervenire o per produrlo o per influenzarne la produzione.
La differenza fra sinistra liberale e socialista non è tanto nell’attenzione ai beni pubblici, che le distingue entrambe dalla destra, ma nel modo col quale se ne occupano, negli strumenti che propongono per ottenerli e accrescerli.

Ed ecco la mia terza idea: il Pd insiste troppo sui fini generici della sua politica e poco sugli strumenti per ottenerli. Ci sono strumenti più liberali e quelli più socialisti.

Sono più liberali quelli che proteggono meno e incentivano di più, che vincolano meno e orientano di più, che risentono di un sacro terrore di limitare la libertà di pensiero di chiunque.

Quelli che affidano allo Stato meno produzione e più modi per indurre i privati a produrre certi beni in certi modi; quelli che finanziano il welfare, per quanto generoso, con più prelievi fiscali e meno debiti a carico delle generazioni future; quelli che mostrano più fiducia nella capacità dei mercati, ben regolati, di destinare risorse di lavoro e capitale agli impieghi più produttivi per la collettività; quelli che combattono le diseguaglianze eccessive, guardando più ai punti di partenza che a quelli di arrivo e mettendo un limite inferiore alla povertà prima che un limite superiore alla ricchezza; quelli organici non a una società col futuro preordinato dalla politica ma utili alla società per trovare autonomamente, con le sue mille interazioni, la conformazione futura.

Sono più liberali quelli attentissimi a non impedire al sistema economico, sociale e culturale del Paese di interagire liberamente col resto del mondo.

Che si sciolga o resti unito o si spezzi, la mia ricetta per il Pd, adattabile ad altri partiti, è di fare le scelte difficili per dire a chi vuol votarlo quali strumenti userà per perseguire fini di giustizia e benessere facili da proclamare.

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