L’euro mina la competitività degli esportatori europei e rende più difficile alla Bce alzare l’inflazione perché riduce il costo delle importazioni. Il cambio si è rafforzato fin da metà marzo, in piena pandemia: è cresciuto del 13 per cento contro dollaro e un po’ meno dell’8 per cento contro la media delle valute dei partner commerciali dell’eurozona.

Può servire guardare le tendenze passate del cambio col dollaro. Fra febbraio e marzo si è invertita una tendenza al dollaro forte che prevaleva dall’inizio del 2018 con l’euro calato di quasi il 15 per cento: il primo febbraio del 2018 valeva 1.25 dollari, più di questi ultimi giorni.

Opposta era stata la tendenza precedente, con un euro rivalutato del 25 per cento: alla fine 2016 per comprare un euro occorrevano pochi cents più di un dollaro.

Il quale tendeva a rivalutarsi dalla primavera del 2014 quando l’euro valeva addirittura 1,40 dollari che erano però il 10 per cento in meno del suo prezzo appena prima della crisi di Lehman Brothers: nel luglio del 2008 raggiunse il massimo dalla nascita, quando valeva poco meno di adesso. Si noti che durante il pieno della crisi Lehman, una crisi molto americana, fra agosto e ottobre del 2008, il dollaro si rivalutò del 27 per cento contro euro.

Il pendolo dei mercati 

Come inquadrare la forza dell’euro nelle considerevoli fluttuazioni dei suoi vent’anni di vita? Guardando la cosa dal punto di vista del dollaro, una causa dell’alternarsi di forza e debolezza è l’atteggiamento dei mercati finanziari internazionali nei confronti del rischio: nelle fasi cosiddette di risk-on, quando la situazione economico-politica globale e le aspettative alimentano la propensione a prendere rischi, il dollaro tende a svalutarsi e viceversa. Come mai?

La ragione è che, quasi indipendentemente da come vanno le cose nell’economia americana, il dollaro costituisce per gli investitori un rifugio nelle fasi di risk-off: o meglio, a costituire rifugio è la ricchezza e l’efficienza del mercato finanziario statunitense, l’ampia gamma di attività finanziarie e reali, le varie combinazioni possibili di rischio e rendimento a disposizione di un portafoglio di dollari.

Dai dollari si esce quando ci si sente di rischiare di più, di cercare rendimenti più elevati, occasioni di impiego più variegate, investimenti con prospettive nuove, posizioni speculative che in tempi più insicuri sono meno desiderate.

Soprattutto dopo la grande crisi del 2008, la distinzione e l’alternanza di fasi di risk-on e risk-off è diventata un elemento importante per le analisi congiunturali e le strategie finanziarie.

Dopo la fine dell’ottimismo

Prevalentemente di risk-on sono stati gli anni precedenti il 2008, quando un esagerato ottimismo sulla possibilità di crescere senza inflazione, con tassi bassi e credito abbondante, in un “mondo piatto” dove era persino “terminata la storia”, ha finito per causare la crisi.

Una crisi da eccesso di debiti che avviò la prevalenza del risk-off col dollaro forte nonostante il disastro della finanza statunitense. La forza tendenziale del dollaro continuò fino a dopo la crisi dell’eurozona, alla fine del 2016 con l’arrivo di Trump alla presidenza americana.

Seguì più di un anno di risk-on col dollaro che imboccò una rapida discesa. Col 2018 si accentuarono nel mondo vari problemi, dalle preoccupazioni per la frenata dell’economia cinese a minacce protezionistiche, incertezze geopolitiche, tensioni politiche nell’eurozona con lo spread italiano in prima fila a minacciare instabilità: tornò dunque il risk-off e il dollaro-rifugio che si rivalutò fino allo scoppio della pandemia. La quale, paradossalmente, finì per esser considerata fase di prevalente risk-on con una quasi continua svalutazione del dollaro.

In realtà durante il 2020 la propensione al rischio ha fluttuato a seconda delle notizie sulla pandemia, sulle politiche per fronteggiarla, sui medicinali e i vaccini, sulle elezioni americane e i dibattiti fra i governi dell’eurozona. Ma è prevalsa la ricerca di rischi e rendimenti in un ambiente mondiale di tassi bassissimi o negativi ma con il sostegno continuamente proclamato di politiche monetarie e di bilancio estremamente espansive e delle quali non è mai presa in seria considerazione l’inversione.

A far da sfondo c’è stato il rigonfiamento vertiginoso della borsa americana  con gli indici S&P 500 e Nasdaq cresciuti più del 40 per cento da marzo a inizio dicembre.

Il bicchiere europeo mezzo pieno

Il rafforzamento dell’euro durante la pandemia non è solo l’altra faccia della debolezza del dollaro di una fase globale di risk-on. Per usare le parole della Banca dei regolamenti internazionali, vi è senz’altro un riflesso della «risposta positiva degli investitori ai segnali di maggior coesione politica nell’eurozona», riflesso evidenziato a metà maggio «quando Germania e Francia proposero il Recovery Fund e accentuatosi a fine luglio con la prima approvazione del Consiglio».

Le decisioni del Consiglio di dicembre hanno confermato la forza del cambio nonostante due giorni prima la Bce abbia rafforzato l’espansione monetaria assicurando nuovi lunghi periodi di tassi bassi e negativi e ricordando la sua preoccupazione per la forza del cambio, della quale di solito non parla.

Ma se le buone notizie sull’area dell’euro ne causano la rivalutazione, quali sono le prospettive? Forse che l’eurozona è destinata comunque a pagare i successi della sua integrazione con una sopravvalutazione del cambio?

Ovviamente non è così: quando lo scenario mondiale tornasse, per cause non europee, in fase risk-off, la coesione consentirebbe una svalutazione rispetto al dollaro ancorché più moderata e compatibile col gradimento delle attività europee nei portafogli globali. E nel più lungo periodo? Che cosa ci dicono i movimenti del cambio degli ultimi decenni circa il futuro rapporto fra euro e dollaro?

Se si vuole che una moneta diventi più attraente ma non sopravvalutata occorre emetterne di più. Ma non in forma liquida, priva di rendimento, sovrabbondante e tale da infragilire il sistema finanziario.

Vanno denominati in quella moneta titoli con un buon rapporto fra rischio e rendimento e trattati in un mercato ampio, diversificato, profondo ed efficiente.

È anche per questo che sono cruciali le emissioni per finanziare il New Generation EU (Ngeu). Si tratta di andare oltre le obbligazioni emesse da istituzioni comunitarie come la Banca europea degli Iinvestimenti affacciando l’Ue come tale al mercato globale dei capitali con un debito comunitario di una certa consistenza.

Questi titoli devono essere diffusi nel mondo: sarebbe inopportuno contare sulla Bce per la loro detenzione, magari per fingere che non siano veri debiti ma miracoli della macchina che stampa moneta. È poi auspicabile che il bilancio dell’Ue si espanda adeguatamente anche dopo l’epidemia e che il suo disavanzo, pur limitato e contropartita di investimenti produttivi, sostituisca parte dei disavanzi nazionali e trovi finanziamento in un flusso di emissioni regolare con titoli sempre meglio diversificati.

Jean-Francois BADIAS

Il destino dell’euro

L’euro può avere un ruolo importante nel sistema monetario internazionale del futuro se l’eurozona offrirà, oltre che a sé stessa, al resto del mondo un mercato finanziario ricco e ben integrato.

Ciò richiede anche di completare rapidamente la realizzazione dei progetti di unione bancaria e unione dei mercati dei capitali, che invece l’ultimo Consiglio europeo ha nuovamente rimandato.

Il mercato finanziario europeo è ancora indebolito da una segmentazione lungo confini nazionali, che ostacola persino la circolazione della liquidità ed è dovuta ai rischi-Paese originati da comportamenti discordi degli Stati membri, soprattutto nella finanza pubblica e nel controllo di quella privata.

Come mostra l’aumento del valore dell’euro quando applaude i piani anti-pandemici comunitari, ogni forma di aumento dell’armonizzazione, dell’integrazione e dell’accentramento delle regole e delle politiche finanziarie europee può essere benefico per irrobustire, a vantaggio di tutti, il mercato dei capitali europeo e il suo ruolo globale.

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