Quindi, ci sarà una “verifica”. Giuseppe Conte ha ricevuto il messaggio. Seguendo il suo ormai noto atteggiamento, prende atto di avere sottovalutato la sensibilità degli azionisti e procede secondo un antico manuale della politica di coalizione. Ma facciamo un passo indietro.

Nei giorni scorsi sono state dette due cose fattualmente non vere, che non c’entrano con le tensioni nella maggioranza, le quali dipendono invece da due opposte anomalie dell’attuale governo.

Apparentemente, tutto è iniziato come reazione alla bozza di decreto che avrebbe istituito la cabina di regia per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). La bozza di decreto, in sé stessa, non conteneva proprio niente di strano. Se fosse oggi a Palazzo Chigi, sarebbe una delle prime cose pensate da Matteo Renzi, che per monitorare l’attuazione del Piano avrebbe scelto senza dubbio persone da lui ritenute qualificate e di sua stretta fiducia.

Chi legge la bozza vede una struttura articolata su tre livelli, con funzioni di concertazione, impulso e coordinamento, che non esautorano gli organi politici collegiali competenti (Consiglio dei Ministri, Conferenza unificata Stato-Regioni-Enti locali, Commissioni parlamentari): 1) il presidio politico del Comitato esecutivo, composto dalla troika presidente del Consiglio, ministro dell’Economia (Pd), ministro dello Sviluppo economico (M5S); 2) la concertazione attraverso il comitato  di  responsabilità  sociale, composto da  sindacati, organizzazioni datoriali, università, terzo settore; 3) il coordinamento amministrativo affidato ai Responsabili di missione.

Nella bozza è chiaro che delle “missioni”, fino a quando raggiungono gli obiettivi fissati dal Piano e rispettano i relativi cronoprogrammi, restano titolari i ministeri e le istituzioni territoriali competenti. Maria Elena Boschi ha sostenuto a Otto e mezzo su La7 che il vulnus starebbe nei poteri sostitutivi.

Ma i poteri sostitutivi sono l’ovvio, ineliminabile complemento della funzione di impulso, monitoraggio e coordinamento. In ogni caso, sarebbero attivati su proposta della cabina di regia dagli organi collegiali politici che ne hanno titolo: il Consiglio dei Ministri e la Conferenza unificata.

D’altro canto, le funzioni di impulso e coordinamento proprie del presidente del Consiglio come dovrebbero essere svolti, in una situazione straordinaria come quella del Recovery Plan, se non attraverso una struttura ad hoc, con a capo figure capaci di interagire con i direttori generali dei ministeri o delle regioni, incardinata presso la presidenza? Parlare a questo riguardo di rappresentanti delle parti sociali o delegati dei partiti di maggioranza da collocare negli staff di Palazzo Chigi non pare tanto convincente.

Si è anche detto che Giuseppe Conte si sia indebolito perché ha perso consenso nell’opinione pubblica. Come mostrano i dati SWG presentati nel grafico neppure questo è vero.

La percentuale di chi «si fida abbastanza o molto» è scesa di pochi punti percentuali, pari a niente se si considera l’inevitabile malumore per le restrizioni e la stabilità delle intenzioni di voto verso i partiti di opposizione. Il premier rimane il politico che riscuote maggiore fiducia tra gli elettori del “nuovo centrosinistra”.

 Dati SGW. Campioni settimanali composti da 800 individui, rappresentativi dell’elettorato italiano per genere, età, area territoriale di residenza, sondati con metodo Cawi-Cami-Cati. Risposte “Abbastanza” e “Molto” alla domanda “Quanta fiducia ha nel Presidente del Consiglio Giuseppe Conte”?

Le due opposte anomalie 

Se mettiamo per un attimo da parte lo strano caso di Matteo Renzi, che oggi evoca caminetti e poteri di veto a cui ieri era allergico, le difficolta e le tensioni emerse nei giorni scorsi riflettono due opposte anomalie dell’attuale governo italiano.

Da un lato Conte, entrato a palazzo Chigi come mediatore e notaio, a seguito di circostanze inattese (l’errore strategico di Salvini, la conversione dei 5 Stelle, la pandemia), di una solida intesa con il Quirinale e in virtù di una notevole capacità di navigazione, si è ritrovato tra le mani un enorme potere di agenda e un notevole credito presso l’opinione pubblica.

Quindi, da un lato il premier ha potenzialmente grandi margini di manovra che eccedono il suo peso politico, non essendo un leader di partito. Dall’altro, ci sono leader di partito che per varie ragioni hanno deciso di restare fuori dal Consiglio dei ministri, cioè dalla sede istituzionale deputata a prendere le decisioni collegiali di governo.

In situazioni normali, in paesi normali, il Consiglio dei ministri o una sua versione ristretta è anche la sede in cui si discutono ipotesi che devono rimanere per qualche tempo riservate e si compongono preventivamente eventuali dissensi, ancora prima di parlarsi attraverso interviste sui giornali o comparsate Tv.

In situazioni normali, in paesi normali, i leader dei partiti di maggioranza ne fanno parte, assumendosi onori e oneri della corresponsabilità. Che questo sia il problema è chiaramente dimostrato dal Pd, il principale partito della coalizione oggi in sofferenza.

Evidentemente il Pd considera ormai Roberto Gualtieri più un tecnico in prestito che un presidio politico. Altrimenti dovrebbe essere largamente appagato da avere nel governo un vicepremier di fatto, più influente di qualsiasi altro ministro, componente chiave della troika, certamente consultato su ogni mossa che riguardi il Recovery Plan.

Forse, allora, è proprio questa la verifica che Conte dovrebbe svolgere, l’offerta che dovrebbe avanzare, il test della verità e la mossa da fare nell’arco di 24 ore, per non trascinare l’equivoco lungo tutto il processo che servirà per programmare e spendere i tanti soldi del Piano di rilancio. Da chi siete o volete essere rappresentati nel Consiglio dei ministri?

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