Sono caregiver di uno dei miei due figli, un bimbo di quasi 9 anni, ora tetraplegico a seguito di un arresto cardiaco arrivato alcune settimane dopo la nascita. Oggi Sirio è portatore di tracheostomia, si alimenta attraverso la peg, utilizza varie protesi per camminare e sentire, comunica con la Caa e la lingua dei segni, riesce persino a fonetizzare attraverso la tracheo frasi intere.

Va a scuola dove ha appena terminato la terza elementare. Adora guidare la sua macchinina elettrica e qualunque altro mezzo su ruote, sfreccia con un triciclo adattato, ama viaggiare, impara a memoria tutti gli itinerari che ripercorre sul tablet.

Ha bisogno di una assistenza costante, va aspirato, alimentato, vestito, medicato, accompagnato al bagno, chiede attenzione, affetto, vuole giocare, parlare, richiede un rapporto simbiotico.

In questi ultimi giorni un’accesa polemica si è sviluppata attorno al questiona rio diffuso dalla Regione Lazio per misurare lo stress dei caregiver.

Dopo la decisione del comune di Roma di ritirare il modulo e le precisazioni della Regione che nella sostanza ne hanno ridimensionato l’uso, su Domani Selvaggia Lucarelli ne ha sorprendentemente difeso le ragioni sulla base delle propria personale esperienza di caregiving geriatrico.

Vite intere di assistenza 

L’aumento della speranza di vita nelle società occidentali ha accresciuto la popolazione anziana con uno sviluppo senza precedenti della medicina e dell’assistenza geriatrica.

Occorre tuttavia distinguere tra il caregiving geriatrico, che inevitabilmente occuperà alcuni anni della nostra vita, e la presa in cura di persone disabili ad alta intensità fin dall’età neonatale e pediatrica, o perché colpite da sindromi degenerative, o gravi incidenti anche in età adulta.

In quest’ultimo caso parliamo di vite intere e lunghissimi
tratti della propria esistenza interamente occupati dall’assistenza totalizzante della persona disabile.

Il questionario oggetto delle polemiche era rivolto proprio a questo secondo tipo di caregiver.

Sono tra quelli che ne hanno criticato i quesiti quando lo scorso mese di marzo il Comune di Roma me li ha inviati per posta elettronica attraverso i servizi sociali del municipio.

Le domande, tratte da un protocollo datato, appaiono scollate dalla società attuale, al punto da essere declinate unicamente al femminile come se non esistessero caregiver uomini.

La gabbia familiare

Il tentativo di acquisire una mappatura del livello di stress e usura dei caregiver potrebbe avere anche un intento lodevole ma arriva dopo anni di abbandono e riduzione delle prestazioni economiche erogate negli ultimi anni.

Nel questionario era possibile variare unicamente l’intensità di fatica e stress proposto (da 0 a quattro): questioni sono tutte incentrate nel chiuso della dimensione familiare come se l’universo della persona con disabilità e del suo caregiver si limitasse alle mura domestiche.

Nessuna attenzione viene posta sulle interazioni esterne e che buona logica porterebbe a ritenere uno degli amplificatori del disagio e dello stress che può esplodere nell’ambito familiare.

Nessuna domanda sulla qualità dei servizi forniti dalle Asl, le prestazioni, sulla presenza di incentivi alle autonomie, la presenza di terapie e ausili moderni, l’accesso scolastico e nel mondo del lavoro o nella vita sociale.

Competenze non vergogna

L’unico momento esterno alla famiglia indagato dal questionario viene posto in termini di «vergogna sociale» eventualmente provata dal caregiver per la persona di cui si occupa.

La vergogna è una emozione sociale, cioè indotta nella persona dalla relazione con gli altri.  C’è vergogna se si subisce uno stigma o non ci si sente all’altezza di parametri estetici e performativi socialmente percepiti come la normalità.

Un sentimento che trova sempre meno spazio in un’epoca dove anche i corpi non conformi rivendicano il loro pride, l’orgoglio di essere quello che sono.

Ci saremmo aspettati altre domande, una ricerca più pertinente degli ostacoli, delle difficoltà e dei limiti quotidiani che logorano la vita del caregiver oggi.

Per esempio: quante volte nell’ultimo anno il caregiver è riuscito ad andare al cinema, al teatro, ad un concerto o a un evento sportivo? 

Se per andare in vacanza viene sospesa o si rischia di perdere l’assistenza infermieristica perché le ferie per la persona disabile e il caregiver non sono ritenute un diritto e nemmeno una cura.

Non si domanda se gli ausili forniti per facilitare la mobilità e le attività della persona disabile siano adeguati, quale sia il peso del carico burocratico, del ruolo di interfaccia continua con tutte le amministrazioni e servizi ospedalieri: gare d’appalto, a volte trimestrali, per forniture e ausili, file in Asl ogni mese per ritirare medicinali e nutrizione enterale, rendicontazione delle spese.

Oppure, per esempio, quante volte si è trovato occupato il posto disabili assegnato o è stata danneggiata la macchina perché quel parcheggio sotto l’abitazione viene percepito da alcuni come un privilegio.

Lo stress del caregiver, la sua fatica, dipendono anche da questi fattori. 

Il questionario proposto non tocca nessuno di questi punti, al contrario appare intriso di cultura moralista e colpevolizzante e mostra di guardare al caregiver come a un potenziale malato da sottoporre a tutela psicoclinica.

Un approccio minorizzante che non vede in chi si prende cura di persone che necessitano un’assistenza continuativa ad alta intensità la presenza di professionalità e competenze acquisite nel tempo.

Un valore aggiunto di cui si ignora la preziosità sociale. Un genitore caregiver è in grado di svolgere manovre salvavita e medicazioni, diluizioni di farmaci e gestione di parametri clinici.

Siamo noi caregiver che formiamo gli infermieri forniti dalle cooperative, insegniamo loro le aspirazioni endotracheali, il cambio delle cannule tracheo, le medicazioni quotidiane, la sostituzione della peg.

Siamo noi che interveniamo durante le emergenze notturne e diurne, apprendiamo nuove lingue e forme alternative di comunicazione.

Tutto ciò non trova riconoscimento, resta un sapere opaco, il caregiver rimane un fantasma, al massimo un paziente da curare non una persona a cui si devono riconosce diritti, bisogni, retribuzione, tutele legislative e pensionistiche.

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