In queste settimane la politica italiana non si occupa tanto dell’incipiente disastro economico quanto della disponibilità di Sergio Mattarella a farsi rieleggere presidente della Repubblica. La classe dirigente del capitalismo italiano non si occupa tanto dell’imminente collasso del sistema finanziario quanto delle strategie di Leonardo Del Vecchio per conquistare il comando sulle Assicurazioni Generali. Sono due storie parallele e coglierne le analogie aiuta a capire in quale direzione (sbagliata) l’Italia stia uscendo dalla pandemia.

Tra due mesi Mattarella compirà 80 anni. Due giorni fa Del Vecchio ne ha fatti 86. L’età non sembra averne intaccato capacità e lucidità, tanto che vengono entrambi considerati difficilmente sostituibili. Ma proprio per questo rappresentano simbolicamente una generazione che (forgiata dall’esempio di padri che si erano fatti due guerre e il ventennio fascista) non è stata in grado di formare quella successiva. In politica i figli di Mattarella appaiono mediamente dei narcisisti più furbi che intelligenti che quindi non si fidano l’uno dell’altro e cercano l’applauso degli elettori facendo a chi la spara più grossa sui social network. Nel sistema finanziario i figli di Del Vecchio sono degli yes-men che affidano le proprie aspirazioni di carriera e ricchezza alla capacità di accontentare il padrone, preferibilmente su cose inconfessabili, così poi lo possono ricattare.

Una partita

La contesa per il Quirinale non è connessa a opzioni politiche significative. Nessuno spiega come potrebbe influenzare, anche indirettamente, i destini del paese la rielezione di Mattarella o la scelta di Mario Draghi o quella di un terzo a sorpresa. Sappiamo solo che a quel tavolo di poker la posta in gioco per i leader politici non è la loro idea di futuro ma una fetta in più o in meno di potere. La partita Quirinale si gioca per poter dire «ce l’ho messo io», anche se tutti sanno che la gloria del kingmaker dura dai tre ai sei mesi, meno di un vaccino Covid.

Nemmeno i più sottili retroscenisti riescono a spiegare quale concreta prospettiva futura motivi la contesa sulle Generali. La maggiore compagnia assicurativa italiana è di fatto controllata da Mediobanca con meno del 13 per cento delle azioni. Ma azionisti come Del Vecchio (4,8 per cento), Francesco Gaetano Caltagirone (5,3 per cento) e altri, vogliono cambiare musica, a cominciare dall’amministratore delegato Philippe Donnet che vogliono far fuori. Così Del Vecchio ha rastrellato oltre il 15 per cento di Mediobanca diventandone il maggiore azionista, anche se la vigilanza bancaria (Bce-Bankitalia) dice che non è stato autorizzato a esercitare il controllo, neppure «di fatto». Per questo non gli è stato chiesto un business plan: non spetta a lui dare ordini ai manager di Mediobanca. Però nel gossip finanziario, che ha la stessa serietà di quello politico, si dice che Del Vecchio punta a “esercitare pressioni” sul management di Mediobanca. Ma pressioni in quale direzione e per fare che cosa? Non si sa e non lo dicono. Come nella politica, anche l’alta finanza italiana non ha progetti e persegue una sola cosa, il potere. Non quello di indicare al paese o alle aziende una strategia per il futuro. No, i nostri condottieri amano solo il potere di influenzare la scelta dei manager per poi sottoporli a “pressione” per i singoli affari, magari un acquisto di immobili o uno sconto al cliente amico. A questo costume da basso impero si adeguano i manager più giovani per poi specchiarsi nei titoli dei giornali che li definiscono di successo: i più bravi a eseguire gli ordini di un vecchio pifferaio.

© Riproduzione riservata