L’Italia è sempre più vicina al nuovo lockdown e intanto qualcuno tuona per l’ennesima volta: «Basta con gli sbarchi! Si chiude tutto ma non i porti!», come se ci fosse una relazione tra gli sbarchi, i porti, e l’aumento della diffusione del virus. In realtà una relazione tra migranti e Covid esiste, ma opposta a quella che dalla narrazione che di solito viene proposta.

La pandemia da Coronavirus ha avuto, tra i suoi effetti, «la totale messa in crisi del sistema migratorio europeo», come racconta il Dossier statistico immigrazione 2020 curato da Idos. «Le chiusure intermittenti dello spazio Schengen, i rientri in massa dei lavoratori stagionali, la serrata degli uffici immigrazione, il peggioramento delle già difficili condizioni sanitarie dei diversi ghetti in tutte le regioni del continente sono solo alcuni dei fenomeni registrati tra la primavera e l’estate del 2020». 

 António Gutierrez, segretario generale dell’Onu, ha ricordato che ««l Covid-19 non interessa chi siamo, dove viviamo, in cosa crediamo» eppure «migranti e rifugiati sono stati denigrati e additati come causa e origine del virus».

Il presidente del Consiglio superiore di sanità, Franco Locatelli, ha detto che «il 25-40 per cento dei casi sono stati importati da concittadini tornati da viaggi o da stranieri residenti in Italia. Il contributo dei migranti, intesi come persone che fuggono da condizioni disperate, è minimale, non oltre il 3-5 per cento sono positivi».

A luglio, dopo l’accertamento di infezioni in stranieri (asintomatici) in un centro di accoglienza del trevigiano (129 su 315,  il 41 per cento degli esaminati), il tentativo di far passare gli immigrati come untori ha ripreso slancio, anche se su 59.648 immigrati accolti in strutture dall’11 maggio 2020 al 12 giugno 2020 è stato confermato positivo al Covid-19 solo lo 0,4 per cento: 239 persone. E questo nonostante le maggiori difficoltà delle comunità straniere nell’accedere ai servizi sanitari e la disparità di reddito tra stranieri e italiani: gli stranieri percepiscono un reddito medio annuo di 13.733 euro, poco più della metà rispetto ai dipendenti italiani (24.984 euro).

Il Dossier statistico immigrazione 2020 ci dice che «le vicende degli ultimi mesi hanno messo in luce il contributo fondamentale dei lavoratori stranieri proprio in quei settori chiave necessari a contrastare la pandemia».

Secondo uno studio di aprile della Commissione europea, circa il 31 per cento degli immigrati in età lavorativa sarebbe classificabile come “essenziale”, con quote di oltre il 40 per cento in paesi quali la Francia e la Danimarca. Nell’Ue i cittadini stranieri sono per esempio il 25 per cento degli addetti alle pulizie e l’11 per cento di quelli dell’agro-alimentare.

Una ricerca dell’Ocse mostra che i servizi sanitari di molti dei paesi più colpiti dal Covid-19 dipendono dall’immigrazione. Nel Regno Unito è nato all’estero il 33,1 per cento dei medici e il 21,9 per cento degli infermieri; poco al di sotto le percentuali riscontrate in Germania (20,2 e 16,2), mentre in Francia e Spagna la quota di medici di cittadinanza straniera è, rispettivamente, del 15,6 per cento e 13,7 per cento».

Italiani invisibili

E in Italia? Sono 77.500 tra medici, infermieri, farmacisti, psicologi. «Un esercito di professionisti, purtroppo invisibili per qualcuno», denuncia Foad Aodi, medico fisiatra, già presidente dell’Associazione medici di origine straniera in Italia e membro  del consiglio direttivo della Fondazione dell’Ordine dei medici di Roma. «Invisibili perché non si può partecipare ai concorsi senza avere la cittadinanza, anche quando si è medici o professionisti della salute e della sanità»

77.500 professionisti della sanità di origine straniera, di cui 22 mila medici, 5 mila odontoiatri, 38 mila infermieri, 5 mila fisioterapisti, 5 mila farmacisti, 1000 psicologi, 1500 tra podologi, tecnici di radiologia, biologi, chimici, fisici. Circa 2500 in attesa di riconoscimento del titolo di studio conseguito all’estero. L’80 per cento di loro lavora in strutture private, e solo il 10 per cento esercita presso strutture pubbliche, perché i concorsi sono, ancor più assurdamente in un momento come questo, riservati ai cittadini italiani.

Più che chiudere i porti a chi arriva in Italia si dovrebbero aprire le porte. Quelle dell’accesso alle professioni di cui tanto c’è bisogno oggi.

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