Qualcuno ha osservato che l’arrivo di Mario Draghi al governo segna il passaggio concettuale dal Recovery fund al Next Generation Eu, cioè dalla mera conservazione dell’esistente alla speranzosa proiezione verso il futuro. Sinceri urrà per il cambio di prospettiva.

Ora però è anche il momento di chiedersi: come sarà la prossima generazione che desideriamo servire allocando razionalmente risorse strategiche? La risposta brutale è che sarà piena di vecchi.

In Italia l’indice di vecchiaia, cioè il rapporto tra il numero di persone con più di 65 anni e il numero dei giovani fino ai 14 anni, è 179: significa che per ogni cento giovani ci sono 179 anziani. Nel 2010 erano 144.

Ancora più rilevante, dal punto di vista della sostenibilità del modello sociale, è l’indice di dipendenza, cioè il rapporto percentuale tra la popolazione in età non attiva (0-14 anni e oltre 64 anni) e la popolazione attiva (15-64 anni), che in Italia ha raggiunto il 35,7 per cento: significa che per ogni 100 persone attive ce ne sono 35,7 inattive. Nel 1980 erano poco più di 20. Il nostro paese ha il valore più elevato fra gli stati dell’Unione europea, ed è il secondo paese al mondo, dopo il Giappone.

Non solo i demografi, ma anche gli studiosi dei sistemi pensionistici dicono che quando l’indice di dipendenza supera il 50 per cento si creano squilibri generazionali difficili da assorbire.

Se proiettiamo l’attuale tendenza all’invecchiamento della società italiana nel futuro, assumendo che il tasso di natalità rimanga quello di oggi, cioè 1,27 (previsione ottimistica: l’indicatore ha avuto delle fluttuazioni, ma negli ultimi decenni la curva tende complessivamente verso il basso), l’indice di dipendenza arriverà attorno al 60 per cento nel 2050, cioè nel periodo del quale promettiamo di occuparci oggi distribuendo le risorse del Next Generation Eu. Significa che la società di domani sarà abitata da molti, moltissimi più anziani rispetto a quella di oggi.

Pensare realisticamente al futuro

La pandemia ci ha tragicamente insegnato quanto è difficile prendere decisioni immediate che riguardano eventi prevedibili ma che si manifesteranno nel futuro. Una comprensibile resistenza psicologica rende difficile mettere un paese in lockdown quando i letti d’ospedale sono ancora disponibili e la situazione sanitaria sembra sotto controllo: il problema è che nel giro di qualche settimana non lo sarà più, e allora sarà troppo tardi per agire efficacemente. In modo analogo, c’è una specie di resistenza mentale a concepire il futuro nei termini realistici che ci vengono suggeriti dalle curve demografiche.

Quando immaginiamo il futuro, intuitivamente pensiamo ad asili, scuole, università, innovazione, ricerca, primi impieghi distribuiti dignitosamente, opportunità per chi si affaccia sul mondo del lavoro, nuovi settori di sviluppo e via dicendo; ma più realisticamente dovremmo pensare alle Rsa, alle pensioni, ai sistemi di welfare che possono reggere il peso di una società anziana, all’assistenza domiciliare per chi non è autosufficiente, all’impatto delle malattie croniche sui sistemi sanitari, ai reparti di geriatria in espansione e in generale a tutti gli squilibri creati da una minoranza della popolazione attiva che dovrà reggere il peso di una crescente maggioranza di inattivi.

Il Next Generation Eu si occuperà, si sta occupando, anche di questa prospettiva, che al momento non abbiamo ragione di ritenere che sia evitabile?

Consideriamo per un attimo anche l’impatto che avrà la crescente longevità della popolazione sulla società che verrà.

Uno studio pubblicato nel 2018 su Lancet dice che l’aspettativa di vita in Italia nel 2040 sarà di 84,5 anni, oltre due anni in più rispetto al 2016. Una cinquantina di paesi nel mondo potrebbero vedere un balzo di dieci anni nell’aspettativa di vita media da qui al 2040, con tutto quello che ciò comporta dal punto di vista dell’adeguamento dei sistemi sanitari.

Un altro tragico insegnamento del Covid-19 è che i sistemi sanitari incentrati sull’assistenza ospedaliera funzionano male nelle pandemie, e adesso all’apparire della formula «medicina territoriale» scatta in automatico l’applauso, con sottotesto critico verso i cattivoni che hanno privatizzato selvaggiamente la sanità della Lombardia, regione che non incidentalmente ha un’aspettativa di vita fra le più alte del mondo.

Eppure lo studio di Lancet dice che le più gravi minacce sanitarie che questa popolazione anziana e maggioritaria si troverà ad affrontare non derivano dalle malattie trasmissibili, ma da altre patologie, tra cui cardiopatia ischemica, ictus, insufficienza renale, Alzheimer, diabete e cancro del polmone.

Ora, tutti speriamo che la telemedicina e altre innovazioni mediche che ancora non siamo in grado di immaginare ci portino un giorno a curare queste patologie in ambienti alternativi a quelli ospedalieri, ma con le conoscenze che abbiamo oggi – quell’oggi in cui dobbiamo decidere come spendere i soldi del Next Generation Eu – è difficile immaginare rivoluzioni copernicane rispetto al rafforzamento ospedaliero, soprattutto per sistemi che richiedono molti decenni per essere elaborati, creati, sviluppati e passati al vaglio della decisione politica.

Fridays in pensione

Diciamolo in un altro modo. Molti si emozionano nel vedere milioni di studenti giovanissimi che scioperando il venerdì chiedono un futuro ricco di speranza e povero di gas serra, ma il futuro di cui dobbiamo occuparci oggi è quello in cui questi ragazzi avranno bisogno della dialisi, di un bypass e di una pensione, non quello in cui dovranno scegliere in quale paese andare in Erasmus.

Ed evitiamo di lambiccare attorno a questioni più complicate, tipo il destino della solidarietà intergenerazionale in uno scenario in cui la differenza di età fra nipoti e nonni tenderà a crescere (in Italia le donne hanno il primo figlio, in media, a 31,2 anni, un aumento di tre anni rispetto al 1995).

Giusto l’altro ieri Repubblica titolava in prima pagina, con una grandezza del corpo del carattere pensata per trasmettere urgenza e gravità, su “un’Italia per i nostri figli”, preoccupazione sacrosanta che non mette in conto una domanda dettata dall’arido realismo: dove sono questi figli?

Ci chiediamo costantemente quale futuro lasceremo ai nostri figli, mentre la questione ineludibile è quali figli lasceremo al nostro futuro.

Incentivi e speranze

A parte i demografi, nessuno parla volentieri di demografia, perché la decisione di avere o non avere figli tocca la sfera delle scelte individuali che tutti percepiscono come inviolabile. E soprattutto perché riguarda, per dirla con il linguaggio della filosofia, concezioni competitive della vita buona, rispetto alle quali teoricamente le istituzioni pubbliche dovrebbe essere neutrali.

Tradotto: ognuno decide come meglio intendere e perseguire la realizzazione di sé, quali priorità darsi, con quale bussola orientare le proprie preferenze e le scelte di vita. Sponsorizzare la procreazione ha sempre un po’ il sapore della predica, ma questo non significa che i governi non debbano tenere conto dei dati quando fanno piani per il futuro, soprattutto quando fanno piani così ben finanziati e ambiziosi.

La demografia non è un destino. Ma se si può dichiarare una moneta «irreversibile» (affermazione che, con tutta la passione europeista che uno ci può mettere, non regge il principio di falsificabilità di Karl Popper) allora non si vede perché si debba pensare che le tendenze demografiche in atto stabilmente da decenni debbano improvvisamente cambiare.

E anche se fosse, di certo l’inversione non avverrà nell’immediato, cioè in quel breve lasso di tempo in cui dobbiamo decidere come spendere i soldi per strutturare il mondo di domani.

Questo apre il problema degli incentivi alla procreazione, antica croce di demografi e politici che da decenni dibattono sull’effettivo impatto di assegni famigliari e altri strumenti per sostenere la natalità. Chi crede nell’efficacia degli incentivi cita spesso il caso della Francia, che ha una solida struttura di aiuti alle famiglie e tassi di natalità superiori alla media europea; chi ci crede meno cita invece Singapore, dove un repentino passaggio, negli anni Ottanta, da una politica di penalizzazione per chi aveva più di due figli alla premiazione a pioggia di chi ne faceva il più possibile ha generato un rimbalzo immediato delle nascite, seguito poi da un lungo inverno demografico. Potrebbe il Next Generation Eu occuparsi di politiche per incentivare la natalità? Potrebbe, ma non è nemmeno ovvio che queste funzionino.

Spesso come chiave per risolvere il problema demografico si cita l’immigrazione, agitata dagli opposti schieramenti politici come minaccia esistenziale o rimedio per tutti i mali.

Ma l’immigrazione è un fenomeno ad altissima complessità, i flussi migratori sono imprevedibili, per definizioni incostanti (dipendono da fattori incontrollabili e che cambiano nel tempo) e complicati da gestire, il dibattito manicheo su frontiere aperte contro frontiere chiuse funziona solo al bar e nei comizi di Salvini, entrambi contesti nei quali spesso si finisce per bere troppo.

Non c’è bisogno di aver letto i libri di Steven Pinker per sapere che gli esseri umani tendono a trovare gradualmente soluzioni a problemi che a prima vista sembrano insolubili. L’intera traiettoria della modernità è segnata da questa progressione, quindi è lecito immaginare che le capacità creative di adattamento potranno mitigare e risolvere i problemi collegati all’invecchiamento della società.

Ma la politica è costretta decidere in base ai dati di realtà, non alle speranze e alla divinazione di eventi impossibili da prevedere con certezza.

Quindi, per il momento, l’allocazione delle risorse per la prossima generazione deve mettere realisticamente in conto che quando parliamo del futuro dei giovani, in realtà parliamo di anziani. Forse non è del tutto sbagliato continuare a chiamarlo Recovery fund.

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