Scrivere un libro che prova a ragionare su eventi ancora in corso – ma c’è forse un momento privo di eventi rilevanti? – espone al rischio di essere immediatamente smentiti dalla realtà. Soprattutto perché i libri hanno un tempo di gestazione lungo, durante il quale si può cambiare idea più volte, e uno di attesa, tra quando vanno in stampa e quando escono in libreria, durante il quale nulla si può più modificare.

Quando con l’editore Einaudi abbiamo mandato in stampa Tornare cittadini, in libreria dal 9 febbraio, c’erano state da pochi giorni le elezioni presidenziali americane e al governo in Italia era saldo Giuseppe Conte.

La realtà però è andata nella direzione della tesi del libro: il populismo al governo si è rivelato una delusione, non ha mantenuto le promesse, non ha neppure riavvicinato il “popolo” alla politica. Ora lo dicono anche molti elettori che avevano creduto alle scorciatoie promesse da demagoghi, dilettanti, abili comunicatori e aspiranti dittatori.

Ritorno alla normalità?

Non tanto il Covid, quanto l’esperienza del governo ha dimostrato che l’onda populista si è infranta contro lo scoglio della realtà. Donald Trump ha perso le elezioni, la Gran Bretagna non ha trovato nessun paradiso fuori dall’Unione europea ed è rimasta invischiata in negoziati estenuanti, il Movimento Cinque stelle e diventato un partito come gli altri che fa coalizioni e spartisce poltrone, la Lega di Matteo Salvini si è messa da sola all’opposizione (anche se ora si prepara a tornare al governo ma forse non al potere), in Francia un presidente centrista come Emmanuel Macron si è dimostrato capace di resistere a populismi di destra e di sinistra e pure alle rivolte di piazza, alle elezioni europee gli euroscettici e i nazionalisti hanno scoperto di essere ancora una minoranza rumorosa.

Nessun paese è uscito dall’Eurozona e, di fronte a una catastrofe generale come la pandemia, le istituzioni europee hanno dimostrato quella flessibilità e quell’ambizione che i loro critici avevano sempre considerato impossibili.

Basta pensare al piano Next Generation Eu e agli acquisti di titoli di Stato della Banca centrale europea che offrono alla politica fiscale sostegno invece che richieste di austerità e tagli, come fu nella crisi precedente, quella del 2011-2012.

Tutto bene, dunque, la politica sta tornando alla normalità novecentesca? La vittoria del più moderato tra i candidati del partito Democratico americano, Joe Biden, contro l’alfiere del populismo Donald Trump negli Stati Uniti potrebbe far pensare di sí.

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La scommessa del partito Democratico, nella primavera del 2020, è stata quella di scegliere un uomo di centro, di grande esperienza, connesso con l’ultima stagione entusiasmante della politica progressista americana, quella di Barack Obama. Con una abile mossa di vertice, l’establishment del partito ha fatto ritirare tutti i candidati moderati, ha spostato le risorse su Biden, ha lasciato solo il radicale Bernie Sanders.

Biden poi ha vinto, grazie anche a un insieme di circostanze di cui è difficile misurare l’impatto: la pandemia in corso, il massiccio ricorso al voto postale, il supporto di quella parte radicale del partito che, di fronte al comune nemico Donald Trump, si è dimostrata leale pur in aperto dissenso con stile e contenuti di Biden. Che ha vinto sulla base di un programma molto semplice e a tutti comprensibile: votare per lui per cacciare Trump.

Il populismo di Donald Trump ha perso, ma metà dell’elettorato gli ha garantito fiducia, oltre 74 milioni di americani hanno votato per una corruzione, una incompetenza e un disprezzo per le istituzioni senza precedenti, culminato nell’assalto dei suoi seguaci a Capitol Hill lo scorso 6 gennaio.

Perché i populisti, come dimostra una lunga lista di esempi sudamericani, una volta conquistato il potere lo usano per cercare di conservare il consenso, in ogni modo lecito e meno lecito e lasciano democrazie più fragili di quelle che hanno ereditato. Ma anche perché i grandi cambiamenti economici e sociali che hanno generato il malcontento e la rabbia alla base del trumpismo non sono svaniti, la pandemia forse rallenta la globalizzazione, ma non inverte certo la tendenza.

Non c’è alle viste alcun ritorno a un passato che, peraltro, soltanto i reazionari possono idealizzare.

La domanda per soluzioni radicali

Il populismo quindi non è definitivamente sconfitto. Ma ha rivelato i suoi limiti. Una volta passata la fase dell’emergenza sanitaria (ammesso che passi presto), la crisi aperta dal coronavirus rischia però di generare ulteriore domanda per soluzioni radicali e di favorire la ricerca di capri espiatori.

Il populismo di sinistra, quello fiscale, basato sulla spesa pubblica, si è rivelato difficile se non impossibile da praticare in economie complesse e integrate come quelle occidentali. I vincoli di bilancio, per quanto contestati, nel caso dell’Italia hanno imbrigliato perfino la maggioranza populista del governo gialloverde, tra 2018 e 2019.

Resta quindi in campo un solo tipo di populismo, quello culturale, quello che individua come bersaglio la minoranza più debole (di solito i migranti) invece che quella più forte (l’élite, l’establishment). Dopo il populismo, insomma, rischia di esserci una nuova destra. Ma un’alternativa è possibile.

La delusione per i risultati della stagione populista apre una finestra di opportunità per chi vuole offrire una alternativa e prendere sul serio le richieste di cambiamenti netti e correzioni degli squilibri profondi che hanno corroso la tenuta delle nostre società e, quindi, la politica.

Gian Mattia D'Alberto / LaPresse 05-11-2015 Milano cronaca Inaugurazione Anno Accademico Università Cattolica nella foto: Mario Draghi Gian Mattia D'Alberto/LaPresse 05-11-2015 Milan Cattolica University in the picture: Mario Draghi

Il nuovo movimento ambientalista è la contestazione piú radicale dell’idea che l’alternativa al populismo sia semplicemente lo status quo. Ma anche il movimento ormai globale contro i monopoli, soprattutto nel settore della tecnologia, e il dibattito su un drastico ripensamento del sistema fiscale e della sua progressività negli Stati Uniti indicano che è tempo per idee forti, radicali, capaci di competere con la semplificazione populista offrendo non una semplificazione uguale e contraria, ma una proposta alternativa che appaghi la domanda di politiche coraggiose e prese di posizione nette.

La parentesi di Draghi

L’illusione che esistesse un popolo uniforme, compatto, con una volontà unitaria affidata a singoli interpreti, è svanita nel giro di pochi anni. Prima che le destre avanzino con proposte ancora piú pericolose, si sta aprendo un momento nel quale tutto è possibile. Un momento per smetterla di essere popolo, tornare a essere cittadini e riprendere in mano quel che resta delle nostre democrazie per rimetterle in sesto.

Nel caso dell’Italia il governo Draghi si candida ad amministrare questa fase di transizione. Dalle sue scelte dipenderà molto del contesto dei prossimi anni, se dopo il fallimento dei populisti al potere ci saranno cittadini partecipi, che espongono le loro istanze, attraverso i loro rappresentanti, e cercano faticosi compromessi. Oppure se prevarrà di nuovo l’illusoria omogeneità del “popolo”, ancora più cinico, arrabbiato e pericoloso di quello che ha cambiato la politica negli anni scorsi.

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