Da quando è cominciata la guerra di Ucraina, mi sono trovato a usare molto più spesso di prima la parola “Occidente”: d’accordo, è una sintesi imperfetta, che evoca momenti bui di “noi contro loro” di inizio secolo, ma ha una sua efficacia comunicativa. Come altro definire quell’insieme di paesi, ma anche istituzioni, intellettuali (a prescindere dalla loro nascita, domicilio o background culturale) che hanno un chiaro posizionamento in termini di valori, priorità, traiettorie?

Si può cercare una definizione geografica, ma è imperfetta, sia perché la Terra è rotonda e tutti sono a Occidente di qualcun altro, ma perché dell’Occidente in senso lato fanno parte a pieno titolo anche l’Australia, baluardo liberale contro le tentazioni egemoniche cinesi, la società civile di Hong Kong, per certi aspetti perfino le élite di paesi altrimenti assai poco occidentali, tipo quelli del Golfo.

Di sicuro hanno scelto di essere occidentali i tantissimi che hanno lasciato la Russia, economisti come Sergei Guriev, per esempio, che da Sciences Po guida il dibattito sulle sanzioni contro il suo ormai ex-paese. E tutto ciò che si contrappone alla visione teocratica e repressiva del patriarca Kirill, quello che benedice la guerra contro i deviati e in difesa della tradizione, come altro si può definire in una parola sola se non come “Occidente”?

Con questo accenno di consapevolezza mi sono accinto alla lettura di un libro che dovevo discutere al Salone del libro di Torino, L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria, dello storico Aldo Schiavone, che il Mulino pubblica come primo tassello di un progetto ambizioso, una serie di libri “faustiana” dedicata appunto al “destino dell’Occidente”.

Fukuyama aveva ragione

In estrema sintesi, il libro di Schiavone ha l’obiettivo di ribadire che Francis Fukuyama nel 1989 non si era poi così sbagliato quando aveva decretato “la fine della storia”. Non nel senso che da lì in poi non sarebbe successo più nulla, come pensa chi non ha letto l’articolo o il libro del 1992, ma nello stabilire che la democrazia liberale di tipo occidentale aveva vinto la battaglia delle idee e si era affermata come l’unico modello di organizzazione sociale e culturale con una proiezione universale. Imperfetto, certo, contraddittorio, ma con l’ambizione e il potenziale di diventare lo standard della civiltà umana, velleità che altri competitor (a cominciare dal comunismo) non potevano più coltivare.

Ora, Schiavone non cita Fukyama e forse neanche sarebbe d’accordo con questa sintesi, ma è ciò che ci ho visto io: dopo anni a proclamare il tramonto dell’Occidente, la sua corruzione interna (politiche dell’identità, cultura woke, estremismo, polarizzazione, populismo) e la sua ridotta rilevanza esterna (il secolo asiatico, l’inevitabile ascesa indiana, l’eterna attesa dell’Africa come nuovo protagonista…) forse è ora di affermare che l’Occidente non è mai stato così rilevante.

La guerra in Ucraina lo dimostra, con Vladimir Putin che sembra scuotere dal suo torpore un’America ormai troppo rivolta verso l’Asia e un’Unione europea rassegnata a essere solo una potenza commerciale. Di fronte ai carri armati russi nel Donbass, tornano le alleanze, la discussione sulla “Globalizzazione degli amici” (Janet Yellen) che vede nei valori condivisi la premessa per l’integrazione economica, invece che il contrario come si è cinicamente pensato per qualche decennio.

L’Occidente, dunque, è quantomeno una categoria rilevante con cui bisogna confrontarsi. Ma per arrivare a quali conclusioni? Schiavone condensa una serie di questioni di cui si è ampiamente discusso in questi ultimi vent’anni e che, in estrema sintesi, sono queste.

Eccezionalismo vs universalismo

La tensione tra eccezionalismo e universalismo: da un lato l’Occidente costruisce un racconto della propria superiorità morale (che però ormai non può o almeno non osa più rivendicare esplicitamente), in termini di cultura, diritti, tecnica, e dall’altro sostiene che questi diritti e questo benessere che è riuscito a garantire entro i suoi confini devono essere estesi a tutti.

L’eccezionalismo è il contrario del relativismo e impone di impedire agli afghani di imporre il burqua alle donne, a Putin di invadere l’Ucraina, ai jihadisti di costruire il loro Stato islamico. E così via.

Sappiamo come va a finire di solido, lo abbiamo visto ad agosto scorso con la fuga da Kabul degli americani dopo vent’anni di occupazione e state building fallito.

Poi c’è la tensione tra democrazia (o meglio, sovranità) e integrazione economica. La prima ha bisogno di fissare dei confini, di perimetrare la comunità che sceglie di darsi delle regole, mentre le opportunità economiche non conoscono barriere.

Da David Ricardo in poi, gli economisti sono convinti che ciascuno deve essere libero di sfruttare i propri vantaggi comparati in una economia globale. Ma se a questa non corrisponde una democrazia globale, le persone perdono il controllo sui processi decisionali dai quali dipendono le loro vite.

E’ il famoso “trilemma” della globalizzazione Dani Rodrik: non si possono avere allo stesso tempo democrazia, sovranità nazionale e integrazione economica.

La terza tensione, aggiungo io perché Schiavone non la esplicita ma percorre tutto il libro, è tra la necessità per l’Occidente di rivendicare i propri successi e il senso di colpa per tutto il dolore, la sofferenza e l’ingiustizia che hanno contribuito a produrli.

Gli Stati Uniti sono lacerati costantemente da questa distanza tra ciò che promettono di essere e ciò che sono stati, contemporaneamente patria della libertà promessa a tutti e paese fondato sulla schiavitù ieri e sulle disuguaglianze estreme oggi.

Questo problema, la necessità di rivendicare una qualche superiorità dell’Occidente ma gli stessi valori che i difensori dell’Occidente professano impediscono simili affermazioni. Un bel problema nell’argomentare queste posizioni.

Schiavone ha molti meno pudori di quelli abituali, in questo dibattito. Scrive per esempio che l’Occidente è «definito dal proprio eccezionalismo» perché è «il continente delle idee e della libertà» con «all’Est un grande spazio buio, una voragine rispetto alla quale la Russia è sempre stata interpretata come in bilico tra la sponda estrema e il precipizio, mentre la Cina risultava comunque dall’altra parte».

Il problema dell’eccezionalismo occidentale è che ha bisogno di identificare all’esterno di sé una “normalità” mediocre, uniforme.

Infatti Schiavone non trova nulla di interessante, promettente o funzionale alla gestione della globalizzazione fuori dall’Occidente: poiché tecnica e capitale, come schematizza con ritorno a categorie marxiste che io padroneggio poco, sono di matrice occidentale e occidentale è l’equilibrio che è riuscito a tenerli insieme nel perimetro della democrazia, allora occidentale deve essere anche il nuovo assetto che ne incanala la forza in un nuovo assetto sovranazionale.

Il problema di queste posizioni è che sono in circolazione nel dibattito da almeno un trentennio durante il quale è vero che non è emersa alcuna forte proposta di ordine internazionale alternativa a quella di matrice occidentale, ma certo l’egemonia (e la presunzione di superiorità) è perduta da tempo.

Il jihadismo – soprattutto nella fase Al Quaeda e quelle precedenti – aveva una idea globale, quella della “umma”; la comunità dei credenti estesa a ovunque vi fossero musulmani, ma non la capacità di imporla se non con azioni terroristiche simboliche, men che meno di renderlo desiderabile dalle masse.

Discorso diverso per la Cina, che Schiavone liquida qua e là in poche righe, come se fosse ancora quella pre-Mao, o almeno pre-Deng, e non il gigante economico, politico e tecnologico di oggi.

L’alternativa al tramonto

La ragione per cui l’approccio di Schiavone sembra oggi così fuori dal coro è che le pretese di eccezionalismo occidentale in molte province della discussione accademica sono state abbandonate man mano che la Cina offriva risposte diverse (ma durature) rispetto alla traiettoria occidentale: crescita senza progresso, prosperità condivisa invece che individuale, proiezione internazionale fondata su finanza e investimenti ma senza soft power all’americana, capitalismo senza mercato (nel senso di competizione e accumulazione di risorse per investimenti e tutto il resto, ma in un contesto con regole opache e istituzioni invasive).

Inoltre l’eccezionalismo occidentale è da tempo discusso e contestato perché le principali sfide ai valori che professa arrivano dall’interno delle società che lo praticano: la disuguaglianza, in tutte le sue forme, si è rivelata al contempo un prodotto quasi inevitabile di un certo modello di crescita ma anche la minaccia permanente alla sua stessa esistenza. 

Tutto questo in Schiavone non c’è, perché avrebbe indebolito lo schema analitico abbozzato nel libro. Ma anche perché, e questo è un merito del libro, Schiavone si proietta sul futuro invece che avere lo sguardo rivolto al passato come fa di solito chi deve rivendicare fasti e successi durante una fase di declino.

La tesi di fondo del saggio, infatti, è che l’Occidente non è al tramonto, ma in una lunga e tormentata fase di transizione, si intravede la nascita di una società globale di matrice occidentale. Che si declina intorno a temi inevitabilmente transnazionali come quello della crisi ambientale. C’è una opinione pubblica e un desiderio di partecipazione che offre all’Occidente una centralità nuova, almeno potenziale.

Schiavone appartiene a una generazione che non sarà protagonista di questa sfida, ma ha il merito di indicare una alternativa a quel tramonto dell’Occidente troppo spesso evocato e celebrato come grande alibi per ogni spinta reazionaria o conservatrice.

Magari ha ragione lui, magari quello che nell’ultimo secolo abbiamo scambiato per il crepuscolo dopo il tramonto era soltanto l’accenno di luce che separa la notte da una nuova alba. Di sicuro la guerra in Ucraina ci costringe a riflettere sul punto. 

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