Il tema del referendum indetto per il 20 e 21 settembre non è di quelli che coinvolgano valori costituzionali primari e quindi inducano a battaglie di principio. Che i membri della Camera siano 630 o 400 e quelli del Senato 315 o 200 (più i senatori a vita), non cambia di per sé nulla in termini di rappresentatività e di funzionalità del parlamento né di equilibri costituzionali fra poteri.

Vale allora la pena di riflettere non tanto sul contenuto della riforma, quanto sulle ragioni che possano indurre a confermare o smentire la scelta fatta dal parlamento. Infatti questo è un referendum di tipo “confermativo” o “oppositivo”, in cui l’elettorato è chiamato a confermare o smentire la deliberazione del parlamento.

Il merito

La legge costituzionale è stata approvata da Camera e Senato con due deliberazioni ciascuno, a distanza di tempo l’una dall’altra (dal 7 febbraio all’8 ottobre 2019), con maggioranze quasi sempre superiori alla metà dei componenti delle assemblee, e da ultimo quasi all’unanimità dalla Camera: su 567 votanti, 553 favorevoli – il 97,5 per cento, ben più dei due terzi – 14 contrari e 2 astenuti. In linea di principio, dunque, occorrerebbe addurre valide ragioni per dire no.
Anche una astensione, frutto di una valutazione di relativa indifferenza sul contenuto della riforma, si potrebbe spiegare, ma, in assenza di quorum, essa potrebbe portare a far prevalere una minoranza attiva di “no” rispetto ad un elettorato che non abbia invece ragione di opporsi alla legge votata dal parlamento.

Dico subito che mi sembrano sbagliate o inconferenti soprattutto le ragioni che in questi giorni vengono avanzate per opporsi alla riforma. Così è per la motivazione basata su una pretesa “mutilazione” del parlamento e della Costituzione.

Non è che assemblee dotate degli stessi poteri ma con un minor numero di eletti siano destinate ad avere minore influenza nella vita della Repubblica. Questa dipende dai poteri a esse spettanti e dai rapporti che le assemblee hanno con gli altri organi costituzionali.

Certo, non si è affrontato come probabilmente meriterebbe il tema di un revisione del cosiddetto bicameralismo paritario oggi vigente, cioè di due camere formate in gran parte allo stesso modo e dotate degli stessi compiti, soprattutto del potere di dare o togliere la fiducia al governo. Ma questa non è una ragione per dire no alla semplice riduzione del numero degli eletti.

Nemmeno è vero che viene compromessa la rappresentatività delle assemblee nei riguardi dell’elettorato.

Su una platea, ad oggi, di 51.403.000 elettori, un rapporto di rappresentanza di un eletto ogni 128.000 elettori non è tanto diverso da un rapporto di uno ogni 81.000 elettori.

Non siamo più ai tempi del suffragio ristretto, in cui l’eletto era espressione di poche centinaia di elettori che potevano avere una conoscenza ravvicinata dei loro rappresentanti.
Oggi l’elettore sceglie per lo più un partito o un movimento politico, che seleziona i candidati, e un rapporto più personale con gli eletti, se c’è, passa essenzialmente attraverso partiti, organizzazioni sociali o comunicazioni diffuse attraverso la rete, oppure attraverso le indicazioni di preferenza.

Invece, rapporti più “ravvicinati” fra singoli eletti ed elettori possono persino essere frutto di intrecci malsani o del prevalere di interessi particolari.
Quindi, il taglio del numero dei parlamentari non deriverebbe meno democrazia.

Certo, con meno eletti sarà un poco più difficile accedere alle camere da parte di esponenti di formazioni politiche molto piccole. Ma, ferma l’esigenza di assicurare il pluralismo, non è desiderabile l’eccessiva frammentazione delle formazioni politiche e dei gruppi parlamentari in cui si collocano gli eletti.

L’eccesso di frammentazione può rendere più difficili le sintesi politiche e la formazione di maggioranze: non a caso, oggi opportunamente si discute di introdurre, nei sistemi elettorali proporzionali, clausole di sbarramento più alte come il 5 per cento, o addirittura di scegliere sistemi prevalentemente maggioritari, in cui l’accesso alle assemblee delle piccole minoranze è ancora più difficile. In ogni caso questo è un problema da affrontare in sede di legge elettorale.

Il ruolo delle regioni

Ancora, i sostenitori del No lamentano diseguaglianze nel rapporto tra elettori ed eletti nelle diverse regioni. Ma questo dipende dal fatto che, già oggi, il Senato è eletto a base regionale e si vuole assicurare una rappresentanza minima a ogni regione: oggi ci sono almeno sette senatori per regione (salvo le eccezioni di regioni piccolissime come la Val d’Aosta e il Molise), domani sarebbero almeno tre, in relazione alla diminuzione del numero complessivo.

Il fatto che si attribuiscano tre senatori a ciascuna delle due province autonome del Trentino-Alto Adige dipende dal fatto che, giustamente, si tiene conto che le due province hanno in sostanza le caratteristiche e lo statuto di regioni.
Quanto al modo in cui le assemblee funzionano, non è affatto vero che una camera più numerosa funzioni meglio di una meno numerosa (altrimenti, nella situazione attuale, il Senato funzionerebbe meno bene della Camera).

Anzi, poiché l’attuale modo di funzionamento del parlamento non è molto buono - caratterizzato com’è spesso da dibattiti ripetitivi in cui, più che confrontarsi sul merito dei problemi, ci si esercita in proclamazioni polemiche e propagandistiche, oltre che da frequente assenteismo (quanti sono i deputati ogni giorno in missione?) - c’è, al contrario, la possibilità che, cogliendo l’occasione della riduzione del numero di eletti, si metta mano ai regolamenti e a certe prassi parlamentari (per esempio, ma non solo, riducendo i tempi degli interventi) per migliorare l’efficienza dei lavori delle camere.
Né si può dire che i componenti di camere meno numerose abbiano più difficoltà a partecipare ai lavori, nel plenum e nelle commissioni. Cosa resta allora delle argomentazioni con cui si sostiene il No?

Resta, paradossalmente, solo la giusta critica ad uno degli argomenti che spesso viene portato per il Sì, ma che è a sua volta del tutto infondato e inaccettabile: quello del risparmio di spesa.

Il buon funzionamento delle istituzioni costituzionali non può essere subordinato a ragioni di costo, e dunque il risparmio cercato sui “costi della politica” (quando non si tratti di eliminare veri e propri sprechi o eccessi di spesa non necessaria per tale funzionamento) non può mai essere una ragione per scegliere una soluzione istituzionale piuttosto che un’altra.

Valerio Onida è professore emerito di diritto costituzionale all'Università Statale di Milano ed ex presidente della Corte Costituzionale.

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