La recente crisi di governo ha ribadito lo squallore della nostra politica, e dunque del paese che essa fedelmente rappresenta. Se fosse una bella favola, potremmo dire che «il re è nudo», ma vivendo una brutta realtà, dobbiamo limitarci a osservare che il presidente del consiglio è in mutande, anche se queste non riescono a nascondere molte delle sue e nostre vergogne.

La prima a saltare agli occhi è la possibilità che il Senato conceda la fiducia a un governo anche a maggioranza semplice. Grazie all’articolo 107 del suo regolamento, infatti, per il calcolo del numero legale si conteggiano tutti i presenti, compresi quelli che si astengono, mentre per il calcolo della maggioranza necessaria per approvare i provvedimenti si conteggiano soltanto i votanti.

La rimozione degli astenuti dal conteggio dei voti, che potrebbe sembrare soltanto una censurabile anomalia del nostro Senato, è in realtà un’esecrabile prassi delle elezioni in qualunque paese. Nel parlamento di un sistema realmente democratico dovrebbe esserci un numero di seggi vuoti proporzionale al numero di coloro che o non votano, o votano scheda bianca, e così facendo esprimono un dissenso nei confronti di qualunque opzione politica in campo: dissenso che è l’unica scelta eticamente accettabile in situazioni di degrado politico, quando qualsiasi avallo alle forze in campo si configura come un’immorale connivenza con il malcostume generale.

Invece, nelle elezioni gli astenuti e le schede bianche si contano, ma il dissenso da loro tacitamente espresso non conta. Anche perché, se contasse, porterebbe a conseguenze catastrofiche per il sistema politico, immaginate da Saramago e descritte nel suo inquietante Saggio sulla lucidità (2004).

In particolare, questo silente dissenso mostra due cose: primo, che i partiti sono molto meno rappresentativi dell’elettorato di quanto appaia dalle addomesticate percentuali dei loro voti, e secondo, che i governi sono molto meno legittimati a governare di quanto sembrino indicare le loro fittizie maggioranze. Ad esempio, lo sbandierato 40,8 per cento ottenuto dal Pd di Renzi alle elezioni europee del 2014 corrispondeva in realtà a un ben più misero 23 per cento dell’elettorato, visto che soltanto il 57 per cento degli elettori era andato a votare.

Per quanto riguarda l’attuale parlamento, alle elezioni politiche del 2018 i votanti sono stati poco meno dell’80 per cento dell’elettorato: dunque, tutte le percentuali ottenute dai partiti dovrebbero essere decurtate del 20 per cento, insieme al numero dei loro seggi parlamentari. Accontentarsi di una maggioranza semplice per la fiducia al governo è allora doppiamente censurabile ed esecrabile, benché la nostra imperfetta democrazia se ne sia già ripetutamente accontentata nel passato: precisamente, per i governi Leone nel 1963, Andreotti nel 1976, Berlusconi nel 1994, Dini nel 1995 e D’Alema nel 1999.

Parlamentari non eletti

La censura e l’esecrazione si triplicano, però, quando si tiene anche conto della presenza in Senato di senatori a vita non eletti dal popolo, ma nominati dal presidente della Repubblica, secondo un’anacronistica pratica derivante dal Senato del regno d’Italia. L’articolo 59 della Costituzione stabilisce che i prescelti debbano aver «illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario», e in teoria questa sarebbe sicuramente una bella idea, ma se si scorre l’albo d’oro ci si accorge che in pratica si è quasi sempre trattato di metallo falso. In realtà, quasi tutti i senatori a vita sono stati scelti per più o meno dubbi “meriti” politici, e oggi solo l’architetto Renzo Piano e il fisico Carlo Rubbia rientrano nei canoni superlativi stabiliti dalla Costituzione.

Le sguaiatezze sui senatori a vita, dette e ripetute da uomini volgari e rozzi come Beppe Grillo e Matteo Salvini, non possono e non devono impedire ai democratici di riconoscere più sobriamente il vulnus costituito dalla presenza in parlamento di parlamentari non eletti, che spesso sono risultati determinanti per gli equilibri politici: in particolare, per i governi Berlusconi nel 1994, Prodi nel 1996, Monti nel 2011 e Conte nel 2021. Naturalmente, si potrebbe ribaltare il discorso e sostenere che il Senato dovrebbe essere composto soltanto da senatori a vita scelti per merito, in base alle ottime condizioni stabilite dalla Costituzione. Si tratterebbe di una degna versione moderna della Repubblica di Platone, ma proprio per questo non sarebbe democratica! E sorgerebbe comunque il difficile problema della scelta dei nominati, che oggi è unicamente affidata all’arbitrio politico del presidente della Repubblica.

Vincoli di mandato

Una quarta violazione dei principi basilari della democrazia, oltre alla damnatio memoriae degli astenuti, ai voti di fiducia a maggioranza semplice e alla presenza di parlamentari non eletti, è l’assenza di una maggioranza politica, che derivi da un’aggregazione di partiti che abbiano ricevuto un mandato elettorale dai cittadini. Oltre a non vincolare i partiti e le coalizioni ai propri programmi elettorali, infatti, il sistema non vincola neppure i parlamentari ai partiti con i quali sono stati eletti: benché il Codice civile renda obbligatorio il vincolo di mandato per i rappresentanti degli individui, come i mandatari o i procuratori, l’articolo 67 della Costituzione lo proibisce invece per i rappresentanti degli elettori, come i deputati e i senatori.

Il risultato è una loro costante transumanza da un gruppo all’altro, che ha visto nella scorsa legislatura (2013–2018) ben 348 parlamentari su 945 cambiare casacca, per un totale di 569 volte: il record l’ha stabilito il senatore Luigi Compagna, che ha cambiato compagnia addirittura nove volte! Queste giravolte sono spesso effettuate per permettere al governo in carica di mantenersi saldo in sella con maggioranze traballanti e variabili, i cui cambiamenti non vengono neppure formalizzati tramite percorsi istituzionali di dimissioni e reincarichi: ad esempio, l’unico governo Renzi (2014–2016) è durato circa tre anni, ma fu in realtà sostenuto da tre coalizioni diverse, una per anno, con totale spregio verso il parlamento e gli elettori.

La determinazione dei seggi

Naturalmente, nessuno nega la legalità formale delle regole del sistema politico italiano, che permettono ai parlamentari e ai governi di giocare questi squallidi giochi. Semmai, in dubbio è la loro legittimità sostanziale, fondata in particolare sul principio della maggioranza assoluta, secondo il quale «la coalizione che ha la metà dei seggi più uno governa». Il problema centrale della democrazia è, però, come si determinano i seggi dei parlamentari in base ai voti degli elettori, e molti tendono a risolverlo con un sofisma linguistico, stabilendo che «la coalizione che ha un voto in più vince».

Oggi questo sofisma viene chiamato “maggioritario”, perché ha il disonesto scopo di assegnare una maggioranza assoluta di seggi a chi ha in realtà solo una maggioranza relativa di voti. Nel 1953 la Democrazia cristiana ne approvò una versione edulcorata, che assegnava un premio di maggioranza in seggi al partito che avesse già ottenuto una maggioranza assoluta di voti, ma a quei tempi la democrazia era ancora in auge: il provvedimento venne bollato come Legge Truffa, scatenò l’ostruzionismo delle opposizioni, provocò le dimissioni del presidente del Senato e dovette essere ritirato.

Nei tempi attuali, invece, aspiranti ducetti di destra e di sinistra, da Berlusconi a Renzi, hanno sostenuto che la governabilità è più importante della democrazia, e in suo nome hanno proposto e adottato leggi elettorali ben più truffaldine della Legge Truffa. Rischia dunque di parlare al vento, o nel deserto, chi voglia far notare che in democrazia la maggioranza assoluta è sempre necessaria, ma spesso non è sufficiente: soprattutto in società radicalmente polarizzate come l’Italia o gli Stati Uniti, in cui la popolazione è spaccata in due da contrapposte concezioni dei princìpi fondamentali del vivere e del convivere.

In queste condizioni, permettere alla parte che ha un voto o un seggio in più di imporre la propria concezione è foriero di tempeste sociali, che possono provocare reazioni anche violente nella parte avversa. Più saggio e democratico è richiedere invece maggioranze qualificate, che sono comunque già previste in particolari frangenti. Ad esempio, l’articolo 83 della Costituzione stabilisce che per l’elezione del presidente della Repubblica siano necessari i due terzi dei votanti, anche se la tipica commedia all’italiana permette poi l’elezione a maggioranza semplice dopo il terzo scrutinio. Persino il Vaticano è più serio di noi, visto che dal 2007 l’elezione del Papa richiede i due terzi dei voti per tutte le votazioni, e non solo per le prime 35, come in precedenza.

Molti organismi adottano maggioranze qualificate, che vanno dai tre quinti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite alla doppia maggioranza dell’Unione europea: secondo il trattato di Lisbona del 2007, infatti, di norma le leggi europee devono essere approvate con il voto favorevole del 65 per cento della popolazione e del 72 per cento degli stati membri, pari a circa due terzi e tre quarti. Da questo punto di vista, dunque, gli organismi sovranazionali sono più democratici e moderni di quelli nazionali, o almeno del nostro.

La precisazione è doverosa, visto che gli stati più avanzati hanno da tempo compreso che, più delle risicate maggioranze assolute, sono utili le grandi coalizioni o i governi di larghe intese, che tendono a comporre le differenze, invece che a contrapporle.

In Germania, tre dei quattro governi Merkel dal 2005 a oggi sono appunto stati di questo tipo, mentre la Svizzera ha adottato tra il 1959 e il 2003 una “formula magica”, che ha istituzionalizzato la grande coalizione per più di quarant’anni. Da noi, invece, nemmeno l’emergenza mondiale della pandemia è stata in grado di far superare ai partiti i loro miopi e ottusi interessi di parte, dai quali d’altronde essi prendono il nome. Il confine tra le democrazie avanzate e quelle retrograde passa dunque per le Alpi, e la nostra purtroppo si rivela essere più africana che europea.

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