No, non è andata bene per la sinistra inglese. Per niente. Che sarebbe andata male lo si immaginava; ma i dati delle elezioni di giovedì scorso sembrano superare i peggiori timori, o le più ottimistiche aspettative a seconda di quale prospettiva si usa per guardare a quella che a tutti gli effetti appare una chiara vittoria politica di Boris Johnson.

I conservatori non solo hanno strappato lo storico seggio nelle suppletive di Hartlepool che ora per la prima volta dal 1974, anno della istituzione del collegio, ha un deputato tory, ma hanno quasi doppiato il voto laburista. Il trend si conferma in tutte le altre circoscrizioni che erano chiamate a votare per le local elections. Quel Boris gonfiabile gigante che si agita davanti alla sede del comitato elettorale di Hartlepool è tanto kitsch e indicativo del populismo splatter del primo ministro, quanto reale e plasticamente attendibile.  

I risultati non sono ancora definitivi e continuano ad arrivare, in parte per il fatto che si è trattato di una somma di diverse elezioni fra suppletive e amministrative che rallentano il flusso del conteggio finale, ma in parte perché in molti hanno scelto di votare per posta. Un dato su cui forse varrà la pena riflettere viste le implicazioni non soltanto per la proclamazione definitiva che conferisce alle prime elezioni postpandemiche un sapore da secolo scorso, specialmente in Scozia dove non si avranno risultati definitivi almeno fino a sabato pomeriggio. Ma soprattutto un elemento da tenere in conto nel quadro dell’analisi delle strategie delle compagne elettorali.

In ogni caso il quadro non cambia: il 6 maggio si è consumata una netta umiliazione per il Labour che si restringe sempre più nei confini del partito delle (non meglio identificate) classi medie urbane, istruite e cosmopolite che vivono nelle grandi città, principalmente Londra, Manchester e Liverpool. Di conseguenza, questa si trasforma nella conferma del partito conservatore nelle zone strappate ai laburisti alle ultime politiche: il Red Wall, quel granaio di voti certi di sinistra su cui storicamente il Labour poteva contare, par proprio essere diventato un Blue Wall. Infine, la Scozia sempre più lontana da Londra, ma se e quanto indipendente e vicina all’Europa lo si vedrà.  

Effetto vaccini

L’analisi dei dati e dei flussi elettorali arriverà nei prossimi giorni e ci spiegherà nel dettaglio le cause di queste conferme. Si tratta, infatti, di conferme, non solo in termini di risultati elettorali ma soprattutto come perimetro politico: il partito di Johnson ha vinto sulla spinta del successo della campagna vaccinale – non un dato sorprendente questo – e si conferma ormai come il definitivo sostituto dell’UKIP. Lo spregiudicato sostegno alla Brexit, la politica del ‘whatever it takes’ per uscire dall’EU ha pagato e sembra essersi radicata.

Anche la vittoria dello Scottish National Party è una conferma. Se raggiungerà la fatidica cifra di 65 seggi coi quali potrà governare senza maggioranze di coalizione e, dunque, vantare un mandato per la richiesta del (secondo) referendum indipendentista non cambia tuttavia il dato di una frattura sempre più marcata fra la Scozia e il ‘sud del Regno Unito’.

E anche per il Labour si tratta di una conferma. L’ennesimo segno di un declino forse inesorabile che rischia di portare il partito all’irrilevanza, come in molti stanno commentando: un’infinita lista di cahiers de doléances su Twitter che, stiamone certi, continuerà per molto tempo.

Di chi sia la responsabilità politica di questo disastro, se ancora l’onda lunga del corbynismo non spurgata (questa l’analisi offerta alla BBC dall’ex blairiano e deputato per Hartlepool Peter Mandelson) oppure la corsa al ‘centro’ senza un chiaro progetto politico socialista (questo la valutazione di Jon Lansman, fondatore di Momentum), sarà il tema della prossima battaglia interna al partito, peraltro già iniziata con la campagna #starmerout. Una conferma pure questa, lo sbraitare per chiedere le dimissioni del leader.

A guardarla così insomma, sembra che Keir Starmer non sia riuscito a dare una immagine di un partito proiettato in avanti rimanendo stritolato da un decennio di questioni interne irrisolte. Ma il vaccino e la Brexit non possono essere la sola spiegazione per il desolante declino laburista.

La sfida per la sinistra

Ci sarà il tempo per deglutire i numeri e riflettere su come tradurli da un livello politico locale a uno nazionale. La vera sfida per la sinistra britannica, e anche europea, mi pare sia infatti questa. Presi nel loro complesso le conferme delle elezioni di giovedì ci mostrano infatti un paese che vota in funzione della prossimità, che sceglie in base a programma elettorale di comunità, che si riconosce in una politica più o meno di vicinato, il cui orizzonte si va sempre più restringendo alle relazioni sociali e politiche più prossime, alle identità territoriali e localistiche.

La capacità di trasferire su un piano simbolico largo e generico queste puzzle di identità ‘di cortile’ sembra essere la base del populismo di Boris Johnson: una sorta di democrazia di prossimità tenuta insieme da pandemia e Brexit. Nel lungo periodo l’identità politica localistica imploderà su se stessa, ma sembra difficile da scardinare in quello breve. Certamente impossibile riuscirci per le politiche del 2024. Come tradurre la politica di prossimità in una matrice progressista non è un’operazione politica facile. Se Starmer ne sia capace è altra cosa. Non credo però che la perenne sostituzione del leader come soluzione alla crisi della sinistra sia la soluzione. Basta guardare alle tristi vicende della sinistra italiana per averne conferma.

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