La povertà assoluta è cresciuta in Italia rispetto allo scorso anno. Lo ha segnalato l’Istat qualche giorno fa. Riguarda più di due milioni di famiglie e coinvolge quasi sei milioni di individui. Se poi si considera l’andamento delle disuguaglianze di reddito (dati forniti di recente da Eurostat), l’Italia presenta anche in questo caso risultati peggiori rispetto a Germania e Francia, per non dire dei paesi scandinavi: al 20 per cento degli italiani più ricchi va il 40 per cento del reddito complessivo, mentre al 20 per cento più povero solo il 7 per cento. 

Sappiamo che su questi risultati pesano fattori storici di lunga durata: l’industrializzazione tardiva e concentrata nel Nord-Ovest, lo sviluppo di piccola impresa che prende forma prevalentemente nella terza Italia del Centro Nord-Est, il fallimento delle politiche di sviluppo del Mezzogiorno. Bisogna però guardare anche alla politica. Da questo punto di vista si può cogliere una sorta di “paradosso delle disuguaglianze". A livelli di spesa sociale simili a quelli dei principali paesi europei si accompagnano da noi livelli di disuguaglianza superiori e più vicini invece a quelli degli Stati Uniti o della Gran Bretagna, nei quali le spese sociali sono più basse. Dietro questo paradosso c’è evidentemente il ruolo della politica, che non è capace di rendere più efficace in termini di contrasto alle disuguaglianze, una redistribuzione di entità non trascurabile al confronto con altri paesi.

Insomma, i motivi del paradosso italiano hanno molto a che fare con una politica che si  è tradizionalmente servita del welfare e del fisco a fini di consenso. In tal modo ha creato nuove disuguaglianze invece di ridurle con interventi universalistici, trattando in modo diverso soggetti in condizioni simili. Una miriade frammentata di posizioni legata al ruolo centrale delle categorie e alla loro forza di contrattazione. Si pensi alla politica pensionistica che ha comparativamente il peso maggiore nella spesa sociale e alla giungla di posizioni che sono state create con differenze di trattamento ingiustificabili in termini di rapporto tra prestazioni e contributi. Il tutto a carico del deficit e del debito pubblico. Si pensi anche alla giungla fiscale creata con le tax expenditures e con interventi contrastanti con il principio costituzionale della progressività.

In questo quadro la legge di bilancio del governo sembra del tutto inadeguata ad aggredire il paradosso della disuguaglianza. Per il momento si può apprezzare il tentativo di mettere la sordina alle più radicali e contraddittorie promesse elettorali (flat tax e pensioni), ed evitare ulteriori danni. Ma vedremo quanto questa linea resisterà agli attacchi già in corso. In positivo, però, c’è solo la proroga per un anno della riduzione del cuneo fiscale a vantaggio degli occupati con redditi medio-bassi. Ma i più poveri, tradizionalmente deboli sul piano della rappresentanza categoriale, non ottengono interventi significativi (ci sono misure di minore rilevanza come la carta acquisti per le famiglie e interventi a sostegno delle madri per incoraggiare la natalità). Per di più il governo intende anche eliminare il reddito di cittadinanza e non introdurre il salario minimo. È evidente che il nodo della povertà e delle disuguaglianze  ha radici lontane e che non può essere sciolto senza una strategia a breve e medio termine che affronti anche il problema della crescita. Ma è proprio questa che non si vede. E quello che resta non può non preoccupare per il futuro.

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