E adesso cosa succede all’Ilva? La sentenza di primo grado arrivata lunedì ha una prima conseguenza: adesso è chiaro cosa rischia chi antepone la produzione al controllo dell’impatto ambientale della acciaieria di Taranto. Le condanne durissime della Corte d’assise hanno spiazzato un po’ tutti, perché le condanne pesanti hanno riguardato non soltanto i proprietari, Fabio e Nicola Riva, oltre che ad alcuni dirigenti, ma anche l’ex presidente della Puglia Nichi Vendola e perfino Giorgio Assennato, il direttore dell’agenzia regionale ambientale Arpa.

Le persone coinvolte nel processo decisionale su quanto e come produrre tra il 1995 e il 2012 sono state giudicate colpevoli. Ci sarà l’appello, vedremo se le condanne saranno confermate o riviste, ma intanto il messaggio è chiaro: lo scambio tra salute e lavoro, per anni considerato inevitabile, non è compatibile con il codice penale.

La dimensione industriale

In this picture taken Friday, Aug. 17, 2012, the ILVA steel plant is seen in Taranto, Italy. An Italian Cabinet official warns Monday, Aug. 13, 2012, a judge's decision to close the ILVA steel plant employing thousands on environmental grounds will cripple the government's industrial policy. The plant was ordered closed after health studies showed an elevated incidence of cancer in the area. The plant's operators say toxic fumes have already been reduced. The plant employs 12,000 and accounts for 75 percent of economic production in Taranto province. (AP Photo/Paola Barisani)

Come ormai da un decennio, la dimensione giudiziaria del caso Ilva oscura quella industriale. Anche dopo la sentenza della corte d’assise sul processo principale, priva di conseguenze immediate sugli impianti, c’è già un altro tribunale chiamato a pronunciarsi: è il Consiglio di Stato che deve decidere su un’ordinanza del Tar di Lecce che aveva accolto il ricorso del sindaco di Taranto Rinaldo Meucci. La storia è sempre la stessa, l’Ilva non rispetta i parametri ambientali, mette a rischio la salute della città, il sindaco tra lavoro e salute sceglie la salute e chiede di spegnere l’area a caldo della fabbrica, cosa che equivale a mettere le basi per la chiusura.

A fianco dell’azienda che controlla Ilva, Arcelor Mittal, si schiera anche il ministero della Transizione ecologica di Roberto Cingolani: in uno dei tanti paradossi di questa storia, perché l’Ilva diventi “verde” in futuro è fondamentale che continui a inquinare nel presente. Nel frattempo, il governo Draghi ha completato le procedure per l’ingresso di Invitalia, la società pubblica guidata da Domenico Arcuri, nell’azionariato e ha mandato alla nuova Ilva semi-pubblica che ora si chiama Acciaierie d’Italia un manager di esperienza come Franco Bernabé. Ma per fare cosa?

Solo i costi sono certi

L’unica certezza sono i costi: Invitalia ha già investito 400 milioni di euro per rilevare il 50 per cento di ArcelorMIttal Italia, altri 680 milioni andranno versati entro maggio 2022, al verificarsi di una lunga serie di condizioni. Il governo italiano deve metterci oltre un miliardo, ad ArcelorMittal è richiesto un contributo da 70 milioni. L’obiettivo del piano industriale è arrivare alla produzione di 8 milioni di tonnellate di acciaio nel 2025, finché non sono completate le prescrizioni ambientali (345 milioni di euro) non si può andare oltre le 6. Ma ad ArcelorMittal non interessa il successo dell’operazione, la sua quota in Acciaierie d’Italia è classificata nel bilancio come “in vendita”. Perché?

Il mercato dell’acciaio

La spiegazione si trova sempre nel bilancio 2020 di ArcelorMittal: l’acciaio è diventato da tempo un business per paesi emergenti, in particolare la Cina, dove i prezzi sono più bassi. C’è un eccesso di capacità produttiva nel mondo – cioè ci sono impianti per produrre più acciaio di quello che serve – e l’attuale andamento al rialzo dei prezzi non deve ingannare: sta succedendo con tutte le materie prime, la ripartenza dopo il Covid combinata con una serie di colli di bottiglia negli scambi internazionali ha determinato un aumento dei prezzi anche dell’acciaio. ArcelorMittal lo spiega chiaramente: “L’industria dell’acciaio ha storicamente sofferto di un eccesso di capacità produttiva strutturale a livello globale e l’attuale capacità eccede l’attuale consumo globale”.

Molto dipende dalla Cina che è il più grande produttore di acciaio e anche il più grande consumatore, questo genera squilibri: nel 2015 è diminuita la domanda interna, col risultato che le acciaierie cinesi hanno inondato il mercato globale, facendo scendere i prezzi. Poi la Cina ha ridotto la propria capacità e continua a farlo, me nel frattempo hanno rallentato economia simili, consumatrici e produttrici a costi più bassi di quelli europei, come Russia, Brasile, Turchia.

Di fronte a queste oscillazioni, nel 2019 ArcelorMittal ha annunciato che avrebbe temporaneamente ridotto la propria capacità produttiva in Europa di 4,2 milioni di tonnellate su base annua. Che è quasi esattamente la differenza tra quanto l’Ilva produce oggi e quando potrebbe produrre a regime: chiaro che in un contesto del genere, ArcelorMittal aveva rilevato Ilva nel 2018, la multinazionale non aveva alcuna fretta di far tornare l’Ilva a produrre a pieno regime.

Sempre nel suo bilancio annuale, ArcelorMittal avverte i suoi azionisti che le attuali tendenze macroeconomiche sono una minaccia per i profitti futuri: l’eccesso di capacità produttiva dei paesi emergenti, in particolare Cina, «ha pesato sui prezzi dell’acciaio» e «se la domanda globale continuerà a indebolirsi o non migliorerà, gli effetti di questo fenomeno potrebbero aumentare».

Per quale ragione Acciaierie d’Italia con Franco Bernabé dovrebbero essere immuni da questo rischio? Come pensano di poter remunerare questo ennesimo investimento nell’Ilva di Taranto quando, oltre a tutti i rischi di mercato, incombono le pronunce dei tribunali amministrativi, il monitoraggio della Commissione europea sugli aiuti di stato e l’ostilità della politica locale che, addirittura con il sindaco, chiede la chiusura dello stabilimento?

Tutto strategico

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A queste domande di solito arriva sempre la stessa risposta, mai argomentata: l’acciaio è strategico per il paese. Cosa significhi strategico non è ben chiaro, visto che si tratta di un semilavorato commerciato in tutto il mondo, prodotto perfino in eccesso, e la possibilità che – tolta l’attuale fase di brusca ripresa – si resti senza è zero.

Di strategico c’è il “riassorbimento” dei dipendenti dell’Ilva di Taranto, reduci da anni e anni di cassa integrazione e lavoro intermittente: i posti di lavoro in ballo diretti a Taranto sono 8.200. Se dividiamo un miliardo di euro, quanto vale soltanto l’ultimo investimento pubblico, per 8.200 posti si scopre che ogni lavoratore salvaguardato costa al contribuente 121mila euro. E il bello è che molti di loro sono a favore della chiusura.

Dunque, esattamente, che senso ha continuare a investire tempo, denaro e salute per tenere aperta l’Ilva di Taranto?

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