Il ministero dell’Economia e delle finanze ha pubblicato l’aggiornamento alla Relazione evasione con le stime provvisorie riferite al 2021. Si confermano le tendenze positive emerse negli ultimi anni: nell’ultimo quinquennio la stima dell’ammontare complessivo dell’evasione delle principali imposte è scesa da circa 108 a meno di 85 miliardi di euro annui e il rapporto tra l’imposta evasa e quella teorica – cioè quella stimata come dovuta in assenza di evasione – è sceso dal 18,2 per cento del 2019 – anno di riferimento per l’obiettivo del Pnrr – al 15,2 per cento – che è già inferiore all’obiettivo stesso da raggiungere entro il 2024.

La natura statistica della Relazione consiglia sempre prudenza nell’interpretazione di questi numeri ma appare evidente che, al netto delle problematiche metodologiche che peraltro sono tendenzialmente costanti nel tempo, la tendenza è alla riduzione dell’evasione nel nostro paese.

In particolare, è l’evasione dell’Iva ad essere scesa in misura molto forte, addirittura, secondo le stime provvisorie per il 2021, sotto il 15 per cento in termini relativi e ai 18 miliardi di euro in termini assoluti. Rimane invece elevata la stima dell’evasione dell’Irpef dei lavoratori autonomi e degli imprenditori individuali, costante da qualche anno intorno ai 30 miliardi, sebbene in discesa in termini relativi secondo i dati provvisori riferiti al 2021.

Pagamenti elettronici

Le analisi econometriche di cui disponiamo indicano alcuni fattori causali di queste tendenze, che consistono sia in riforme adottate negli anni recenti – l’introduzione dello split payment e del reverse charge nel pagamento dell’Iva, la fatturazione elettronica, l’introduzione degli Isa al posto degli studi di settore – sia, presumibilmente, in tendenze naturali di trasformazione dell’economia, quali la crescita dimensionale media delle imprese e la diffusione dei pagamenti elettronici.

Su quest’ultimo aspetto, peraltro, è necessario un chiarimento. Diversamente da quanto viene spesso raccontato, l’utilizzo di strumenti elettronici di pagamento non è un modo per comunicare direttamente all’autorità fiscale il fatto che sia stata effettuata una transazione e ottenuto un certo reddito.

Neppure esiste un automatismo che leghi i pagamenti elettronici ricevuti da un operatore alle sue dichiarazioni fiscali. Tuttavia, il diffondersi dei pagamenti elettronici, che in Italia ha avuto una grossa spinta durante la pandemia, insieme con ulteriori riforme realizzate in adempimento del Pnrr – tra cui in particolare la disponibilità all’amministrazione fiscale dei volumi complessivi di vendite con strumenti elettronici effettuate dagli operatori sia B2B (business-to-business) sia B2C (business-to-consumer) – aumenta la percezione della tracciabilità delle singole transazioni.

E nella stessa direzione vanno le iniziative di precompilazione delle dichiarazioni, in particolare di quelle Iva che avverrà per la prima volta nel 2024.

Non basta

Da questo quadro possiamo trarre due indicazioni. La prima è che le politiche di questi anni, unite ai cambiamenti strutturali del sistema economico, hanno effettivamente contribuito a ridimensionare il fenomeno. La seconda che l’Italia, in termini relativi, continua a rimanere un paese dove si evade molto e, soprattutto, molto di più rispetto agli altri paesi.

Non va infatti dimenticato che la tendenza alla riduzione dell’evasione, proprio in quanto legata non solo a scelte di politica fiscale – che peraltro sono a loro volta spesso condivise tra paesi diversi – ma anche a fenomeni di cambiamento strutturale dei sistemi economici, ha caratterizzato anche altri paesi a noi simili.

Se, quindi, nel 2019 in termini relativi l’evasione dell’Iva in Italia era ancora più di 3 volte superiore a quella spagnola, quasi 3 volte rispetto a quella francese e poco meno di 2,5 volte di quella tedesca, è plausibile che oggi questi rapporti siano scesi, ma anche che il nostro paese rimanga tra quelli con l’evasione più elevata, in particolare se limitiamo l’attenzione alle economie di dimensione e importanza comparabili alla nostra.

Non sarebbe quindi ragionevole pensare che il problema sia risolto. Anzi, posto che le riforme più “semplici” sono state già realizzate, la strada che rimane da percorrere richiede un’azione ancora più incisiva che deve incidere su quelle (ampie) parti dell’economia sommersa sono rimaste del tutto o quasi impermeabili ai cambiamenti di questi ultimi anni.

Cosa bisogna fare

Occorre agire sia sul piano del disegno delle regole di tassazione sia su quello della loro applicazione. Sul primo fronte, va subito chiarito che non è di ulteriori incentivi che abbiamo bisogno. L’evidenza empirica a nostra disposizione non indica che gli incentivi fiscali – in particolare il cashback – siano stati particolarmente efficaci rispetto ad una tendenza che, in effetti, era già in corso senza bisogno di alcun incentivo.

Abbiamo invece bisogno di imposte che siano concepite in modo da minimizzare la convenienza dell’evasione. Ad esempio, la riduzione del numero delle aliquote Iva offre anche questo tipo di vantaggio perché riduce la spinta all’evasione “lungo la catena” ossia negli scambi B2B tra operatori economici, e, di conseguenza, rende più facilmente identificabile anche l’evasione dell’Iva più diffusa, quella nelle vendite al consumatore finale.

Ancora, il riassorbimento dei regimi agevolati Irpef -di cui si è argomentata l’inefficienza e l’iniquità in un precedente articolo- serve a ridurre gli incentivi ad evadere che oggi esistono proprio al fine di godere di questi regimi agevolati. La vicenda della cosiddetta flat tax per gli autonomi è esemplare al riguardo: nella Relazione evasione del 2022 è documentata la massiccia sottodichiarazione del fatturato da parte di chi voleva far comparire a un valore delle vendite inferiore alla soglia dei 65mila euro per poter godere dell’aliquota ridotta (e lo stesso fenomeno, seppure ovviamente di dimensione minore data la rarefazione dei contribuenti a valori superiori, si è ripetuto con l’incremento della soglia a 85 mila euro, come mostrato nella Relazione evasione del 2023).

Ma è a livello di applicazione delle regole, ovvero di amministrazione fiscale che è necessario agire, in almeno tre direzioni. In primo luogo, va sancito un equilibrio definitivo e sistematico tra le esigenze di tutela della privacy e quello di uso massivo dei dati da parte dell’amministrazione fiscale.

Questo equilibrio è stato già trovato, dopo tre faticosi anni, per i dati dell’anagrafe dei conti correnti che, dall’estate del 2022 – e anche in questo caso si tratta di una riforma realizzata in adempimento al Pnrr – sono utilizzabili dall’Agenzia delle entrate in forma pseudonomizzata nella fase di analisi e mappatura del rischio, con il ripristino dei diritti alla privacy nella fase di utilizzo del dato (la norma originaria era della legge di bilancio per il 2019).

Un simile schema andrebbe generalizzato a tutte le, numerose, banche dati che oggi sono a disposizione dell’amministrazione fiscale ma risultano ampiamente sottoutilizzate. In secondo luogo, bisogna dotare l’amministrazione fiscale delle risorse umane e materiali per poter valorizzare pienamente questa massa enorme di dati. Negli ultimi anni le amministrazioni fiscali, e in particolare l’Agenzia delle entrate, si sono dotate di statistici ed informatici che ora vanno pienamente integrati nella struttura e nell’operatività dell’Agenzia, anche in sede locale.

Altrimenti il rischio è che le analisi statistiche rimangano fini a sé stesse e non vengano utilizzate per orientare e supportare l’azione di contrasto dell’evasione. In terzo luogo, serve ripensare all’organizzazione dell’amministrazione finanziaria, alla pluralità di organi e soggetti coinvolti e alla frammentazione dei processi.

Oggi la filiera che va dalla raccolta e produzione dei dati, alla loro analisi e utilizzo per le policy, fino alla riscossione delle imposte dovute vede coinvolti soggetti pubblici e privati con competenze che si sovrappongono e a volte si scontrano, creando rallentamenti e inefficienze di varia natura.

Abbiamo bisogno di un’organizzazione migliore dell’amministrazione finanziaria -che ha già fatto, questo va riconosciuto, enormi passi in avanti in questa direzione- e di leggi che, semplificando e razionalizzando il prelievo, chiudano gli spazi e riducano gli incentivi all’evasione e all’elusione e, ovviamente, che smettano di offrire sanatorie e condoni ad ogni piè sospinto. Serve buon senso e capacità di imparare dall’esperienza, mentre non servono slogan, né vuoti proclami di incarcerazione o di “lotta senza quartiere all’evasione”.

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