Nel dibattito pubblico la qualifica di filosofo, ormai, procede per semplice autocertificazione. Le barriere all’ingresso sono così basse che, ai tempi del Green Pass, è più facile accreditarsi come filosofo che entrare in un ristorante. Qualche giorno fa sono capitato sulla pagina Wikipedia a me dedicata e ho visto che ero stato definito proprio con la parola con la effe. Mi è parso necessario intervenire personalmente per rimuovere questa denominazione pomposa. 

E dire che faceva comodo. Quando i media devono parlare di economia chiamano un economista, quando devono parlare di medicina chiamano un medico. E poi c'è il filosofo, al quale si chiede di parlare di tutto. Esisterebbe dunque una “scienza del tutto”? Platone credeva di sì, e tentò di legittimare questa figura nella polis come una sorta di super-esperto in grado di mediare tra i saperi con gli strumenti della logica e dell’argomentazione. Ma dai tempi di Platone a oggi è accaduto che la quasi totalità di queste tecniche sono state assorbite in un tronco comune di saperi trasversali, insegnati dalla scuola dell'obbligo o presupposti da tutte le altre discipline. La storia della filosofia è per gran parte la storia di come certe idee hanno dato via a nuove specializzazioni — la biologia, la linguistica, l'economia... — oppure sono state assorbite in una cultura condivisa. Se oggi, a fronte di una crescente divisione dei saperi, la società continua ad avere un disperato bisogno di sintesi teoriche e prospettive valoriali, non è detto che i più adatti a produrle siano coloro che chiamiamo filosofi.

Al filosofo oggi resta l’intoccabile prestigio della scienza prima, e se va bene una bella barba: quanto basta per macinare inviti a festival, radio, talk show. Ma poiché ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne possa sognare la tua filosofia, Orazio, a voler parlare di tutto si finisce inevitabilmente per dire qualche stupidaggine. Questo accade anche agli economisti e ai medici, lo abbiamo visto negli ultimi anni, ma nelle loro discipline ha sempre l’ultima parola il consenso scientifico che poco a poco si assesta; mentre di tutta evidenza la circolazione delle idee filosofiche fuori dal contesto universitario segue regole diverse. A poco è servita la petizione pubblicata pochi giorni fa sul Fatto Quotidiano con la quale oltre 100 filosofi italiani si dissociano dalle posizioni di Giorgio Agamben: le sue idee e le sue metafore continueranno a circolare perché il corpo sociale esprime una “domanda di senso” che non riconosce la sovranità di nessuna comunità scientifica. C’è molto da criticare sul modo raffazzonato in cui alcuni filosofi mediatici rispondono a questa domanda di senso, avvicinandosi a quella che i greci chiamavano “sofistica”, ma altrettanto da dire sull’incapacità del mondo universitario di offrire un’alternativa udibile.

Che cos’è un filosofo?

Perché se la sofistica è uno scoglio da evitare, lo è anche la scolastica. Secondo Giovanni Boniolo, in un intervento affidato al sito Le parole e le cose, il valore di un filosofo andrebbe valutato secondo i criteri bibliometrici interni al mondo della ricerca universitaria (ad esempio i famosi H-index). Ma queste, più che le regole della filosofia, sono appunto le regole di quella che i primi filosofi moderni chiamavano “scolastica”: un sistema che ha prodotto grandiosi risultati in materia di logica, di linguistica, di teologia, ma che a un certo punto ha cessato di rispondere alla domanda sociale del suo tempo. Esso ha il difetto di tutte le burocrazie: grande efficienza quando le cose vanno come devono andare, unita a una notevole incapacità di adattamento. Inoltre se il criterio bibliometrico segnalato da Boniolo vale per specifiche branche della disciplina, non sembra corrispondere all’insieme degli oggetti che compongono il canone filosofico per come ci appare dai manuali in uso in Europa: una sequenza piuttosto eterogenea di “momenti di rottura” rispetto alle metodologie precedentemente accettate, certo non una storia lineare di tentativi ed errori diretti verso un’unica direzione. 

Di fatto chiamiamo “filosofi” coloro che hanno istituito ex novo nuove metodologie, rifiutando quelle precedenti senza tante cortesie. Pensiamo a Cartesio che manda all’aria secoli di studi rigorosi mettendosi in testa la balzana idea di ripartire da zero con il suo “cogito”, come un terrapiattista qualunque, o ad Adam Smith che taglia il cordone ombelicale tra la vecchia filosofia morale e la nuova economia politica. Non esiste scienza normale in filosofia ma soltanto scienza rivoluzionaria, perché “filosofia” è il nome che abbiamo dato alla storia discontinua delle grandi rivoluzioni concettuali. E la scienza rivoluzionaria, insegnano Kuhn e Feyerabend, non potendosi legittimare secondo i criteri del paradigma preesistente, per imporsi deve mobilitare gli affetti e la retorica, portata se necessario da outsider con H-index minuscoli o inesistenti. Da Socrate a Cartesio, da Erasmo a Nietzsche, essa è invariabilmente populista.

Vengono accolti nel canone filosofico coloro che hanno saputo istituire nuovi mezzi e nuove regole in funzione di nuove finalità e nuovi valori. Come si distingue allora un filosofo da un ciarlatano? Confesso che quando in qualche occasione mondana sono stato definito filosofo mi è capitato di lasciar correre, ma più spesso ho tentato d’insistere sul seguente paradosso: non esiste nessun solido criterio, né di titoli né di metodo, per distinguermi da un ciarlatano, un cospirazionista o un folle. Nessuna ragione extra-testuale per cui dovreste credere in quello che dico. Credete in me come altri credono in un santone che parla di extraterrestri — per simpatia, per affinità, per fiducia. E forse perché anch’io, in un certo modo, ha provato a rispondere a quella “domanda di senso” che gli H-index non aiutano molto a soddisfare.

Un salto nel vuoto

Che cos'è un filosofo? Di certo non io. Ma se posso occasionalmente usurpare questo titolo è perché alcune delle cose che ho scritto hanno svolto, in modo forse caotico, quella stessa funzione, incontrando un pubblico che ha voluto darmi quella fiducia senza che io abbia fatto nulla per meritarlo. Il mio primo libro Teoria della classe disagiata era un durissimo processo alle mie aspirazioni deluse, un tentativo di fare i conti con il mio destino di filosofo fallito cercando risposte che il sapere scolastico non era stato in grado di darmi. Perché, mi chiedevo, non riusciamo a smettere di desiderare di essere qualcosa che non possiamo essere? Come tanti altri mi ero confrontato, all'uscita dall'università, con il bisogno urgente di guadagnarmi da vivere in autonomia, il che era incompatibile con la prosecuzione degli studi e l'acquisizione di un qualche “metodo”, figuriamoci con una reputazione scientifica. Se volevo trovare un senso, dovevo arrangiarmi. Questo percorso mi aveva però dato qualcos’altro: un punto di osservazione originale sul mondo, sicuramente diverso (non necessariamente migliore) da quello di chi parlava dall’interno dell’istituzione universitaria. Ogni tanto per rinnovare il sapere bisogna fare un salto nel vuoto, fregandosene delle procedure e reinventando tutto da capo. Se l’accademia non accetta questo, si condanna a non capire perché la società continua a preferire le scorciatoie concettuali e le metafore potenti alla rigida disciplina argomentativa.

Ma questo non può essere, ovviamente, l'unico modo di pensare il mondo. Se personalmente vi sono ricorso è perché non ne avevo altri: sono stato ben contento, quando poi ne ho avuto le possibilità finanziarie, di riprendere i miei studi, al fine di acquisire finalmente delle metodologie che mi permettano di vagliare le ipotesi, correggere gli errori, rispondere alle domande, colmare lo scarto tra le intuizioni e la realtà. Perché a forza di aggirare la scolastica, si rischia di cadere nella sofistica. E se è vero che viviamo una fase storica che ha disperatamente bisogno di rivoluzioni concettuali, è anche vero che proprio in queste fasi — si pensi all’impero Romano all’epoca di Augusto — proliferano le superstizioni e i millenarismi. Per ogni pensatore realmente rivoluzionario, che ancora attendiamo, ci sono decine di falsi profeti. Come orientarsi? Non c’è modo di dedurre logicamente l’innovazione, ma prima di buttare a gambe all’aria le regole e le procedure della comunità scientifica dobbiamo assicurarci di aver davvero trovato un nuovo paradigma convincente. Altrimenti il salto nel vuoto rischia di essere, per citare una celebre leggenda metropolitana apprezzata anche dal professor Agamben, come il salto dei lemming giù dal burrone.

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