«Responsabilità» chiede il governo, pensando a nuove limitazioni della socialità per prevenire i contagi. «Libertà» gridano i «negazionisti», in piazza, sui giornali e in tv, accusando i poteri pubblici di imporre obblighi inutili e dannosi. Nel conflitto tra il principio di responsabilità e la rivendicazione di libertà sembra giocarsi la tenuta del patto sociale, in un frangente critico come quello della pandemia.

Cittadini (e intellettuali) rispettosi delle regole denunciano gli «irresponsabili» e si compiacciono quando il virus, come un giustiziere, li punisce per la loro intemperanza. Cittadini (e intellettuali) insofferenti alle regole denunciano la «mentalità da schiavo» di chi non si ribella.

Ma responsabilità e libertà sono davvero in contraddizione? In realtà, dipende da come le vogliamo intendere. 

Nella visione oggi dominante, la responsabilità personale è intesa come imputabilità di ciascuno per le proprie scelte, come «responsabilità di»: dei propri successi, frutto del merito personale, e dei propri fallimenti, risultato delle proprie colpe.

Se ognuno è responsabile per sé, la capacità di difendersi dal virus si eleva a merito individuale, e incorrere nel contagio implica una forma di colpevolezza. Ma se ognuno è responsabile per sé, perché al contrario non scendere in piazza rivendicando il diritto di essere padroni della propria vita, di sfidare la malattia, di giocare a dadi con la morte?

In un articolo uscito sulla London Review of Books, lo storico Eli Zaretsky descrive il filo sottile che unisce il discorso «moralistico» della sinistra anti-trumpiana con la protervia del presidente degli Stati Uniti. Alla postura  «colpevolizzante» che affligge il fronte democratico e liberale, Donald Trump risponde con la sfrenatezza da giocatore d’azzardo, suscitando ammirazione nei suoi seguaci.

Questa «connessione tacita» fa di discorsi apparentemente opposti due facce della stessa cultura, imperniata sull’individuo a scapito di una visione della società.

L’idea di responsabilità individuale indebolisce il legame sociale e la partecipazione democratica. Come si può, su questa base, richiamare una collettività a un dovere di solidarietà?

Se si intende fare appello alla responsabilità, dinnanzi a una minaccia concreta per la sopravvivenza di tutti e di ognuno, è necessario ripensare questa nozione, non come «responsabilità di» ma come «responsabilità per»: per gli altri, per la propria comunità, per il mondo comune.

Nella pandemia siamo tutti e tutte vulnerabili, perché in relazione con gli altri e dipendenti dagli altri. Per questo, siamo tutti e tutte responsabili.

Se gli altri sono portatori del contagio, sono però anche fonte di protezione. E se nessuno, nemmeno l’individuo più accorto, può pensare di salvarsi da solo, nessuno può, per lo stesso motivo, chiamarsi fuori dagli obblighi imposti dall’esistenza collettiva.

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