Per i mercati è stato un primo semestre fra i peggiori da cinquant’anni, per dimensioni delle perdite e per ampiezza dei crolli.

Da inizio anno l’indice azionario americano S&P 500 ha perso il 18 per cento, quello dei tecnologici (Nasdaq) il 26 e il 34 quello dei semiconduttori.

Perdite simili in Eurozona (-19 per cento l’EuroStoxx), Italia (-21) e mercati emergenti (-18 in dollari l’indice Msci). Al reddito fisso è andata perfino peggio, tenuto conto della teorica minore rischiosità: il prezzo dei titoli di stato decennali americano, tedesco e italiano, è caduto del 9, 13 e 17 per cento rispettivamente.

Per i corporate bond, dove al rialzo dei tassi è seguito anche un aumento del rischio di credito, le perdite sono state addirittura in linea con quelle azionarie: l’indice dei corporate bond (con rating di almeno BBB) ha perso il 15 per cento negli Usa e il 12 nell’area euro; ben 17 per cento quelli “high yield” (inferiore alla BBB) sia in dollari che in euro. Perdite anche per le principali valute nei confronti del dollaro: 12 per cento l’euro, 18 lo yen, 13 la sterlina.

Neanche i metalli si sono salvati: -17 per cento l’argento, - 23 il rame, -32 l’alluminio, e perfino -5 l’oro nonostante l’inflazione. In pratica, a parte gas e petrolio, grosse perdite ovunque. E non è detto che si sia toccato il fondo.

Nella testa dei mercati

I mercati percepiscono un forte rischio di inflazione e/o recessione nell’immediato futuro; e la guerra in Ucraina non basta a spiegarlo.

Eppure, se guardiamo alle previsioni economiche di consenso, non c’è traccia di questi rischi nel 2023. La crescita del Pil è stimata in media +1,7 per cento negli Usa, +1,9 nell’Eurozona e 5,1 in Cina: non sarà boom, ma la recessione è un’altra cosa.

L’inflazione è stimata al 3,2 per cento negli Usa, 3,1 nell’Eurozona e 2,4 in Cina: niente in confronto agli anni Settanta. La discrepanza tra le aspettative degli investitori e quelle dei policy maker evidenzia la perdita di credibilità di questi ultimi, banche centrali in primis, presi alla sprovvista dall’inflazione e privi di modelli adeguati a comprenderne la dinamica.

Questo ha messo in dubbio la loro capacità di riportarla sotto controllo. Non c’è più un’ancora a cui fissare le aspettative e, a peggiorare le cose, i policy maker aggiungono incertezza all’incertezza perché le loro decisioni non sono più prevedibili.

In questo contesto, è cruciale osservare il comportamento degli investitori per dedurne dedurre i rischi che ci attendono.

In cerca di indizi

Negli Stati Uniti il focus del mercato è passato rapidamente dal rischio di inflazione a quello di recessione. Preso atto del proprio ritardo, la Fed ha cambiato drasticamente atteggiamento: forte rialzo dei tassi e dichiarazioni di assoluta priorità nella lotta all’inflazione.

Così, il tasso a 2 anni sui titoli di stato, maggiormente sensibile alla Fed, è salito da 1,30 per cento di inizio marzo a un massimo di 3,45 a metà giugno: un rialzo che ha pochi precedenti.

Nello stesso periodo il mercato futures ha scontato un rialzo del tasso obiettivo della Fed per la scadenza giugno 2023 da 1,57 a oltre 4 per cento.

La convinzione che la Fed, per rifarsi una credibilità, continuerà a aumentare i tassi fino a quando si avranno segnali concreti di rallentamento stabile dell’inflazione ha spostato rapidamente l’attenzione del mercato sul rischio recessione, visto il ritardo temporale della reazione di prezzi e salari.

Così, da metà giugno sono crollati i prezzi di petrolio, materie prime, titoli tecnologici e ciclici maggiormente esposti a una recessione; ci si attende che i risultati societari del secondo trimestre e le “guidance” per il resto dell’anno porteranno una revisione al ribasso degli utili societari, con un’ulteriore caduta dei corsi azionari.

Il rischio dissesti ha quasi raddoppiato lo spread sui corporate bond high yield, mentre il valore medio delle banche americane è sceso da 1,5 a 1 volta il patrimonio netto.

Le aspettative di recessione sono ormai così radicate che il mercato già guarda oltre e sconta che, di fronte ai dati, la Fed ridimensioni la stretta monetaria: così in poche settimane il mercato futures ha ridotto dal 4 al 3,15 il tasso guida della Fed scadenza giugno 2023; e coerentemente con lo scenario “rapida recessione-calo inflazione-riduzione dei tassi” l’intera struttura temporale dei tassi è oggi piatta intorno al 3 per cento.

Tutto dipende dall’inflazione

Dunque, tutto ruota intorno ai dati sull’inflazione dei prossimi mesi estivi e sulla risposta di una Fed in cerca di credibilità: molto probabile che la volatilità dei mercati continuerà fino a ottobre, quando i dati del terzo trimestre ci diranno se la stretta monetaria, il crollo della domanda di mutui, l’effetto ricchezza della caduta dei mercati e la debolezza della domanda estera (soprattutto cinese) avranno invertito la dinamica dei prezzi.

Ma tenuto conto che l’occupazione sta ancora crescendo, la solidità finanziaria dei grandi gruppi e la patrimonializzazione delle banche, è pensabile che si abbia un marcato rallentamento ma non una recessione; che perciò il mercato azionario possa ancora scendere in linea con le revisioni degli utili, ma tocchi i minimi nei prossimi mesi estivi; che la curva dei tassi possa stabilizzarsi tra il 3 e il 4 per cento; e che i dissesti aumentino, ma non al punto da generare una crisi sistemica.

Molto diverse le aspettative per l’Europa.  Due indicatori su tutti: da febbraio l’euro ha perso l’11 per cento contro il dollaro e la parità è in vista; e da inizio giugno il prezzo del gas è salito del 220 per cento per i timori del blocco delle forniture russe, mentre nello stesso periodo, nonostante la forte domanda europea, negli Usa è sceso del 35 per cento.

Dall’andamento dell’euro si deduce che il mercato non crede che la Bce seguirà la Fed nell’aumentare con decisione i tassi, perché l’inflazione deriva prevalentemente da uno shock di offerta; il rischio recessione in Europa è maggiore; e prevalgono i dubbi che la Bce  abbia gli strumenti e la volontà politica per evitare la “frammentazione” (ovvero la crisi del debito pubblico italiano), al di là delle dichiarazioni.

I rischi di recessione

Il maggior rischio di recessione è dovuto a due fattori: i governi nazionali che, di fronte alla crisi energetica, non riescono a coordinarsi, mostrare unità di intenti e rapidità di intervento; e un modello di crescita basato sulle esportazioni, con gli Usa che rallentano e la Cina in lockdown. 

La guerra energetica della Russia andrebbe combattuta con price cap, acquisti in comune, mutualizzazione delle risorse finanziarie per un programma di sostegno alle fasce deboli della popolazione e alle piccole imprese (modello Covid), e condivisione delle risorse energetiche alternative al gas russo nella transizione.

Niente di tutto: si procede in ordine sparso con bonus, sussidi, detassazioni, e provvedimenti dirigistici nei confronti delle società elettriche (vedi la nazionalizzazione della francese Edf o il bail out pubblico della tedesca Uniper) che servono solo a guadagnare effimero consenso, aggravano il problema del debito pubblico, ma non riescono ad attenuare gli effetti del monopolio russo né ad accelerare la transizione alle rinnovabili e alla diversificazione delle fonti.

I timori di recessione spingono maggiormente al rialzo il rischio del credito nell’eurozona: lo spread dei corporate bond con singola B in euro ha raggiunto gli 840 punti, contro i 622 degli equivalenti in dollari; e le banche dell’Eurozona sono ormai valutate con uno sconto del 50 per cento rispetto alle omologhe americane.

Ma le peggiori prospettive europee rispetto agli Usa non paiono ancora pienamente scontate dal nostro mercato azionario e dal mondo delle imprese in genere. Di questo ci dovremmo preoccupare.

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