In altre crisi, le banche centrali sono state la soluzione. In quella attuale, intesa come quella generata dal combinato di inflazione e guerra in Ucraina, sono il problema. In particolare la Banca centrale europea e in particolare la sua presidente Christine Lagarde, ormai chiaramente inadatta al ruolo.

Ma anche la Federal Reserve, che prima si impegna ad aumentare in modo molto gaduale i tassi di interesse e poi, dopo una fuga di notizie tanto pilotata quanto grave, nella riunione di oggi del comitato sui tassi (Fomc) alza il costo del denaro dello 0,75 per cento in una volta. L’aumento più brusco dal 1994, che dimostra come la parola del presidente Jay Powell valga zero, visto che appena a maggio aveva promesso che non sarebbe mai successo. 

Sul fronte della Bce la situazione è ancora più preoccupante. L’ultimo esempio è di oggi, con la scelta di convocare un meeting di emergenza – segreto ma non troppo, la notizia circolava martedì pomeriggio – appena cinque giorni dopo la riunione mensile di giovedì scorso, quando la decisione di alzare i tassi di interesse a luglio e di ridurre gli acquisti straordinari di titoli, ha sconvolto i mercati.

O meglio, cioè che ha sconvolto i mercati è che dopo averlo annunciato, la Bce non avesse pronto alcuno strumento straordinario anti-spread che nel nuovo gergo di Francoforte si chiama “anti-frammentazione”, dove la frammentazione è quella del mercato obbligazionario dei titoli di debito pubblico di paesi dell’eurozona con rendimenti richiesti dal mercato sempre più divergenti.

Il dibattito sull’Italia

Il comunicato dopo il vertice di emergenza che doveva rispondere alle perplessità del mercato sul punto si è chiuso con la promessa di «accelerare il completamento del progetto di un nuovo strumento anti-frammentazione da sottoporre al consiglio dei governatori». Come dire: ci stiamo ancora pensando, ma ci penseremo con maggiore intensità.

Questo dibattito riguarda l’Italia e quasi soltanto l’Italia. Questa volta non è la Grecia, non è il Portogallo, non è l’Irlanda o la Spagna.

Quando dieci anni fa la Bce doveva studiare sistemi di intervento creativi e di emergenza, con Mario Draghi alla guida, c’erano vari paesi con problemi seri e diversi, in parte eredità della crisi finanziaria del 2008-2009 e dei salvataggi pubblici di banche decotte, in parte conseguenza di tracolli di credibilità dei paesi ad alto debito incapaci di reagire a un aumento dei tassi di interesse (deciso dalla stessa Bce ed esasperato da un mercato impazzito).

Oggi c’è un solo paese sempre citato negli articoli del Financial Times sulla Bce e sulla fine delle misure straordinarie: l’Italia. In questi giorni paghiamo uno spread, cioè una differenza di rendimento rispetto al bund tedesco, di circa 224 punti, poco sotto la Grecia (264) e molto sopra il Portogallo e la Spagna (126 e 136).

Le ragioni del fatto che i creditori chiedono interessi più alti sono sempre le stesse: siamo un paese ad alto debito pubblico con basse prospettive di crescita che non fa le riforme necessarie anche se, unico in Europa assieme alla Grecia, ha richiesto tutti i fondi di Next Generation Eu, sia i prestiti che quelli a fondo perduto. Altri paesi, come la Spagna, non hanno reclamato i prestiti proprio per dare maggiore credibilità alle proprie finanze pubbliche.

Gli interventi della Bce prima con il Quantitative easing lasciato in eredità da Draghi dopo la crisi precedenti, poi con il programma legato alla pandemia (Pepp), hanno calmato i mercati con acquisti straordinari di titoli di Stato italiani che da un lato ne aumentavano la domanda (facendo scendere il rendimento) dall’altro davano il segnale che la Bce era schierata a difesa della tenuta dell’euro. E nessuno vuole speculare contro la Bce, perché la Bce i soldi li stampa e – se vuole – vince sempre.

Il problema Lagarde

Ma Christine Lagarde non è Mario Draghi. Draghi aveva la capacità di convincere i mercati della sua determinazione a intervenire senza spendere un euro: il famoso discorso del “Whatever it takes” del luglio 2012 ha generato uno strumento di emergenza, le operazioni Omt con intervento del fondo Esm, che non è mai stato usato.

Lagarde, anche se spende e compra, trasmette ai mercati il messaggio opposto a quello che il senso letterale delle parole indica: la Bce non è più disposta a intervenire per evitare che l’eccessiva divergenza dei tassi di interesse pagati da Stati membri dell’eurozona metta a rischio la moneta unica. «Non siamo qui a chiudere gli spread», aveva detto a marzo 2020, poco dopo il suo insediamento: sembrava una gaffe, era una dichiarazione programmatica.

Basta leggere il discorso della componente tedesca dell’executive board Isabel Schnabel, alla vigilia del meeting straordinario di oggi: dopo le dichiarazioni programmatiche sull’impegno della Bce a evitare la “frammentazione” del mercato obbligazionario, Schnabel spiega tutte le ragioni per cui la Bce non ha davvero intenzione di agire.

Sono argomenti che trascurano completamente la dimensione politica e le aspettative degli operatori quanto i governi. Schnabel spiega che i tassi reali pagati dai governi (tasso nominale meno inflazione) restano negativi, che molti governi (tipo l’Italia) hanno gestito con prudenza i mesi del post-pandemia e quindi hanno allungato la vita media del debito, col risultato che gli aumenti di tassi e spread ci metteranno tempo a trasformarsi in effettivi esborsi aggiuntivi per interesse, e che la situazione al momento resta sotto controllo.

Tutte cose vere quanto discutibili: i tassi reali sono negativi anche perché l’inflazione galoppa – 8,1 per cento a maggio nell’eurozona – a una velocità che la Bce non aveva previsto.

Il cuscinetto accumulato in tempi favorevoli si disperde in fretta perché il rapido aumento degli spread diventa subito maggiori costi di finanziamento per banche e imprese, minore crescita, che a sua volta rende il debito più pesante rispetto al Pil.

Il vero problema, per l’Italia, è che Schnabel e la Bce non vogliono che le misure “anti-frammentazione” funzionino, come si evince dalla decodifica di questo passaggio del suo discorso: «Mentre il Pepp (il programma di acquisti straordinari durante la pandemia) è stato capace di stabilizzare i mercati, non poteva invertire in definitivo la frammentazione in quanto tale. Il processo di re-integrazione si è messo in moto soltanto dopo l’annuncio del Recovery fund europeo».

Tradotto: non è la politica monetaria a fermare la disintegrazione dell’area euro, ma il cambiamento nei fondamentali e la politica fiscale. I soldi europei e le riforme abbinate hanno dato una spinta alle aspettative di crescita dei paesi europei, anche e soprattutto dei più fragili come Grecia e Italia.

Logicamente, ne consegue che se torna la frammentazione è perché c’è qualcosa che non va sul lato della politica economica: i soldi non vengono spesi abbastanza in fretta, le riforme non producono gli effetti desiderati sulla crescita potenziale. Insomma, se sale lo spread non è per colpa della Bce ma perché ce lo meritiamo.

Draghi cancellato

La differenza culturale con l’epoca di Draghi non potrebbe essere maggiore. Draghi aveva convinto la Bce che quella che oggi si chiama “frammentazione” era di per sé un problema e che rientrava nel mandato della banca centrale correggerla, visto che con alcuni paesi che pagano tassi troppo diversi dagli altri, diventa impossibile trasmettere gli input di politica monetaria.

Quindi gli spread andavano ridotti nell’interesse della Bce, prima che dei paesi beneficiari.

Oggi invece è tornata a dominare una cultura tedesca che trova sponda nella presidente francese della Bce, un avvocato che non ha la capacità di Draghi di interagire con i mercati. E nella mentalità Bundesbank la Bce può anche annunciare scudi anti-spread, l’importante è che non funzionino e che l’Italia senta la pressione dei mercati.

Non tanto e non solo per fare le riforme che altrimenti rimanda sempre, ma perché prima o poi l’aumento dei tassi porterà l’Italia a fare quello che i tedeschi più ostili auspicano da un decennio: il consolidamento del debito pubblico con la ricchezza privata, che poi significa una specie di default controllato combinato con patrimoniali e prelievi straordinari.

Il secondo tempo della partita per il destino dell’euro è cominciata. E come all’inizio della crisi del 2011, l’Italia è sola e senza alleati. Con una Bce di nuovo ostile, dopo gli anni di Mario Draghi. Siamo sopravvissuti l’altra volta, forse ce la faremo anche questa. E, salvando l’Italia, salveremo anche l’eurozona e dunque l’Europa.

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