Su queste colonne ho criticato la gestione di Jean Pierre Mustier in Unicredit, per aver bruciato 14 miliardi dell’aumento capitale e ceduto attività per 13 al solo scopo di restituire soldi agli azionisti con dividendi e buyback. Strategia da azienda matura e ricca di cassa, non da banca tradizionale che deve innovare il suo modello di business, con in più l’incertezza delle ricadute economiche causate dalla crisi da Covid.

La buona governance di una società quotata a controllo diffuso prevede che un consiglio di amministrazione revochi la fiducia all’amministratore delegato (ad) a fronte di risultati insoddisfacenti o dissensi sulla strategia. Ma il modo in cui si è consumato il divorzio da Mustier sono un concentrato di errori.

Nel momento in cui si sfiducia un ad, bisogna annunciare il nome di quello nuovo: la cosa peggiore per un’azienda è non sapere chi la guida. Il mercato inoltre deve conoscere le ragioni del cambiamento e gli obiettivi che al nuovo ad si chiede di raggiungere. Vuoto di potere e mancanza di obiettivi chiari danneggiano quanto una cattiva gestione.

L’errore su Padoan

Ma l’errore maggiore è stato la scelta del presidente. In generale si pensa che quella del presidente sia solo una ricca poltrona per un signore ben introdotto nei posti che contano, e che non deve dare fastidio all’ad.

Il presidente ha invece il compito fondamentale di guidare i lavori del Consiglio di amministrazione, vigilando sulla coerenza dell’operato dell’ad con le strategie e il piano approvati. Se del caso, agire affinché venga sostituito.

Sfiduciato Mustier, il Consiglio avrebbe dovuto nominare simultaneamente un nuovo ad e il nuovo presidente che ne vigilasse l’operato. Invece, prima ha scelto il presidente, Pier Carlo Padoan: un personaggio politico che da ministro ha orchestrato il salvataggio pubblico di Mps e sottoscritto con la Commissione europea l’impegno a ridurre la presenza pubblica nella banca entro il 2022.

Impossibile non interpretare la nomina di Padoan come un’indicazione che si voleva la fusione con Mps, di fatto sfiduciando Mustier che si era opposto a qualsiasi acquisizione in Italia.

Quella con Mps, poi, non sarebbe una fusione qualunque. Si discute esclusivamente di quale debba essere la dotazione di capitale, i vantaggi fiscali e la copertura dei rischi legali per incentivare l’acquirente di Mps.

Nazionalizzare Unicredit?

Ritengo tuttavia che l’aspetto più importante sia che una fusione, necessariamente realizzata con uno scambio azionario, porterebbe lo Stato, in quanto azionista di Mps, a diventare socio rilevante in Unicredit.

A mero titolo esemplificativo, se la fusione avvenisse ai prezzi di Borsa, lo Stato, con circa il 4,5 per cento di Unicredit post fusione diventerebbe uno dei primi soci; per acquisirne il controllo, gli basterebbe poi accordarsi con le Fondazioni di Verona e Torino, già azioniste di Cassa depositi e prestiti insieme al ministero dell’Economia.

Padoan è inoltre un autorevole membro di una forza politica al governo che sta sistematicamente riportando lo Stato in una posizione di influenza sul controllo in tante società a suo tempo privatizzate: Ilva, Alitalia, Telecom Italia, Autostrade, Borsa Italiana. Con la fusione tra Mps e Unicredit anche le vestigia del Credito Italiano e della Banca di Roma ritornerebbero nell’orbita pubblica.

Nominare Padoan e sostenere una fusione con Mps acquisisce dunque una valenza politica; e fa di Mustier un improbabile eroe caduto a difesa del libero mercato.

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Le fusioni non bastano

A monte dell’ondata di fusioni bancarie, c’è l’errata convinzione che queste siano sinonimo di risoluzione del declino dell’industria. Può esserlo, ma non necessariamente.

Una fusione permette di sfruttare le economie di scala permettendo di tagliare i costi operativi, e di ridurre il costo della raccolta perché, aumentando la dimensione della banca, ne riduce il rischio.

Il secondo vantaggio è che permette di aumentare il numero dei clienti. In un paese che non cresce, con una percentuale di anziani tra le più alte al mondo, il mercato è saturo; né si può acquisire clientela con la differenziazione del marchio (i prodotti bancari sono omogenei), o facendo concorrenza sui prezzi.

Impossibile dunque puntare sulla crescita organica; l’unica via è crescere per linee esterne, tramite una fusione. Ma perché abbia successo bisogna avere prodotti propri da distribuire per massimizzare i margini.

Molte banche invece, e tra queste Mps e Unicredit, hanno ceduto capacità “produttiva” per fare cassa (carte, prodotti di investimento, credito al consumo, attività di depositaria, polizze assicurative), dovendo quindi sottoscrivere accordi per la distribuzione di prodotti di terzi; ma riducendo così i margini e perdendo know how.

Perché una fusione crei valore deve essere chiaro chi compra, e gestisce la nuova entità, e chi vende. Chiarezza di intenti e di comando riducono tempi e costi della riorganizzazione, facilitando il raggiungimento degli obiettivi.

Come creare valore   

Se il mercato ha valutato favorevolmente le acquisizioni di Intesa (Ubi e le banche Venete), e quelle di Crédit Agricole (Creval e prima Cassa di Cesena) è perché entrambe “fabbricano” in casa gran parte dei prodotti che distribuiscono, e hanno ricorso a offerte pubbliche sul mercato, rompendo con la triste tradizione delle lunghe negoziazioni per spartirsi le poltrone.

Una lezione che Unicredit, Bper, e Banco Bpm dovrebbero tenere a mente se, come sembra, vogliono percorrere la strada delle fusioni.

Anche se queste condizioni sono soddisfatte, una banca più grande non è necessariamente più efficiente, redditizia e solida. Pesa l’eredità di una infrastruttura tecnologica elefantiaca e obsoleta. Bisogna avere le capacità e i capitali per ricostruirla su basi differenti.

Per numerosità, ripetitività e omogeneità delle operazioni, una banca assomiglierà sempre più a Google piuttosto che a una rete di sportelli; e da società come Google dovrà imparare a usare le informazioni sui propri clienti per capirne le necessità, offrire loro i prodotti che vogliono a costi sempre più bassi. O saranno Google, Apple, Amazon, o Alibaba, a trasformare le banche in anacronistici dinosauri.

Un altro ostacolo è l’incapacità di competere in segmenti ad alto valore aggiunto, che una volta erano prerogativa della banca universale.

Operazioni di M&A, di leverage buyout, di capitale, ristrutturazione dei crediti, cartolarizzazioni, trading, derivati e strutturati, finanziamenti a lungo termine di project financing e infrastrutturali, sono ormai appannaggio di un pugno di banche di investimento americane, di istituzioni specializzate, e fondi di tutti i tipi (il cosiddetto shadow banking).

Per esempio, dalla cessione dei propri sistemi di pagamento e gestione delle carte, le banche italiane hanno involontariamente favorito la nascita di aziende come Nexi, che oggi vale quasi il doppio di Bpm, Bper e Mps messe assieme.

Fondersi fa bene, ma potrebbe non bastare.

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