«Ascolta, Israele». La preghiera più importante della fede ebraica si recita con una mano a coprire gli occhi. Secondo alcuni, è perché sarebbe impossibile professare la propria fede in Dio – e nel Dio unico – con davanti agli occhi tutto il male che c’è nel mondo. E, da un mese a questa parte, forse coprirsi gli occhi è davvero indispensabile per riuscire a recitare «Shemà Israel».

Fosco Maraini, nel suo bellissimo Le pietre di Gerusalemme, riedito lo scorso anno da Il Mulino, scriveva alla fine degli anni Sessanta: «Chi ha letto con un po’ di cuore la storia di Gerusalemme nei secoli deve ringraziare gli dèi d’una sola cosa: che il sangue sia delebile, ch’esso si sciolga alla pioggia, si secchi nel sole e scompaia. Se il sangue fosse indelebile Gerusalemme sarebbe rossa. Tutta rossa».

«Ascolta, Israele», con gli occhi coperti perché non si può sostenere lo sguardo di tutto questo sangue, da chiunque sia versato. Coprirsi gli occhi e dirsi: «Ascolta». Lo Shemà non è propriamente una preghiera: non ci si rivolge a Dio, al Trascendente. Ci si guarda dentro, ci si affaccia sul proprio abisso, ci si rivolge a se stessi: «Ascolta». Ci si rivolge all’Israele interiore, quello che c’è nel fondo di ogni uomo. L’etimologia di “Israele” è incerta. Forse ha dentro la radice di “lotta” (s-r-h) e di “Dio” (El). «Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, poiché tu hai lottato con Dio e con gli uomini, ed hai vinto» (Gn 32, 31): è la parola dell’Altissimo, dopo la misteriosa lotta con Giacobbe, per una notte intera, «fino allo spuntar dell’alba». Forse il mistero più grande. Dio vuole lottare con te, e vuole essere vinto da te; lo ripeteva spesso Divo Barsotti, il mistico che, dalle colline di Settignano, insegnò ai suoi a pregare ogni mattina con lo Shemà.

Haim F. Cipriani, nel suo commento in Schiudi le mie labbra, nota una cosa interessante. E cioè che, dopo che Dio gli ha cambiato nome in Israele, il testo biblico non è lineare, ma continua a chiamare Giacobbe alternativamente in un modo o nell’altro. Quasi come in un’identità incerta, intermittente, claudicante; come del resto claudicante è Giacobbe, dopo quel combattimento da cui, sì, vincerà, ma una ferita gli resterà per sempre. Giacobbe, Israele. «Una condizione mai acquisita, una condizione che va sempre di nuovo ricreata», commenta Cipriani. Segno che Israele non è – o non è soltanto – una particolare esperienza etnica o politica, ma è quella parte più profonda di ciascuno, nel nucleo della propria individualità, con la quale Dio si relaziona, con la quale Dio lotta, dalla quale vuole essere vinto.

È quella parte di noi, nella profondità delle nostre coscienze, che Dio vuole pro-vocare, anche se dovesse significare uscirne feriti. Viene in mente Pedro Salinas, con i suoi insuperabili versi: «Perdonami il dolore, qualche volta. / È che da te voglio estrarre / il tuo miglior tu» (La voce a te dovuta). Israele è «il tuo miglior tu», che però zoppica, è incerto, a volte torna ad essere solo Giacobbe, non è mai acquisito senza rischio di perderlo.

Niente di statico, dunque. E “statico” e “stato” hanno la stessa, identica, radice. Bene che ci siano, gli Stati; non si potrebbe fare altrimenti. «Per quel che mi riguarda, (lo stato) non mi piace. Tuttavia molte cose che non amiamo sono pur necessarie», scriveva Jacques Maritain, nel 1951 (L’uomo e lo Stato).

Purché nella consapevolezza che «l’eccellenza non si definisce attraverso il fatto di essere Israele, ma Israele si definisce attraverso questa eccellenza» (E. Lévinas, Difficile liberté, 1976). E anche se ti chiami Israele, certe volte puoi tragicamente finire per essere solo Giacobbe.

Forse, pensandoci, non è una benedizione che il sangue sia delebile. È piuttosto una maledizione. Sarebbe stato meglio se il sangue di Gerusalemme fosse stato indelebile, se la città fosse tutta rossa. Così, forse, non avremmo sostenuto il suo sguardo, ci saremmo coperti gli occhi, e avremmo richiamato in vita ogni giorno quell’Israele interiore – quel «tuo miglior tu» – che ora fatica a uscire dalle macerie della spirale di vendetta in cui ci siamo cacciati.

© Riproduzione riservata