Il problema dell’Italia è la continuità. Fondamentalmente questa è la lacuna principale della cosiddetta seconda repubblica: i governi durano poco senza quella permanenza dei ministri della prima, quando cambiavano soprattutto i premier.

Ci sono ragioni oggettive a tale stato di cose. Tradizionalmente il sovrano in Italia è il parlamento: dentro le camere si formano e si disfano le maggioranze e si delinea la condotta generale del paese. Molti pensano che lì risieda il nostro problema ma non così: il parlamento italiano ha dato ottima prova di sé come ammortizzatore politico-sociale di un paese composito e diviso come il nostro.

Dopo la guerra il parlamento è stato il luogo dove si è forgiata sia la coscienza democratica post-fascista, evitando la caccia alle streghe, che la convivenza tra democratici e comunisti, che non si annunciava per nulla facile.

Montecitorio è stato anche il cuore pulsante del paese dove è stato riassorbito il primo populismo italiano (l’Uomo Qualunque) ed è stato tenuto a bada il risorgente neo-fascismo, costringendolo dentro le regole democratiche.

Successivamente il parlamento ha “digerito” ogni fenomeno disgregativo: dal secessionismo, all’antipolitica personalista fino all’attuale sovranismo, incluse le tentazioni demagogiche del primo stadio dei Cinque Stelle (la fase scatoletta di tonno).

Nella storia della Repubblica tutto ciò che è passato dal parlamento ne è uscito trasformato, maturato e reso saggio dal metodo del dialogo, del confronto e della ricerca del compromesso. Per questo in Italia non abbiamo avuto casi gravi di scomposizione dal punto di vista politico.

Ecco perché occorre avere rispetto per il nostro sistema parlamentare, che nulla ha da invidiare alle altre democrazie europee. L’altra faccia della medaglia di tale nostra tradizione è la mancanza di efficacia nelle politiche.

Molti dei nostri guai si devono precisamente a questo: nella seconda repubblica ogni governo ricomincia quasi sempre daccapo, segnando una discontinuità considerata positiva. I media favoriscono tale giudizio favorendo l’anomalia della politica-spettacolo presentista e ossessionata dall’originalità.

L’unico antidoto possibile è l’operato delle alte sfere burocratiche del paese: la loro permanenza nei posti chiave assicura la continuità necessaria alle politiche perché funzionino.

Il problema sorge quando tale ceto dirigenziale dello Stato non riesce ad intessere una relazione positiva con la politica, chiudendosi a riccio e navigando nella cautela auto-conservativa.

In quel caso il paese si ferma: non si fanno le norme attuative, non si riescono a spendere i soldi, non c’è elaborazione programmatica.

Quando le cose non vanno è lì che occorre guardare: se politici (pro tempore) e commis d’état (più stabili) dialogano efficacemente tra loro. 

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