È difficile trasmettere, in poche righe e in un momento di forte emozione, l’importanza che ha avuto la figura di Jean-Paul Fitoussi nel dibattito europeo e italiano.

Jean-Paul era in primo luogo un brillante economista. La sua tesi di dottorato, su Inflazione, equilibrio e disoccupazione pubblicata nel 1971, conteneva un’analisi sul legame tra attività economica e inflazione che andava ben oltre la controversia monetarista dell’epoca, e la cui importanza salta agli occhi in queste settimane.

In quegli anni ha anche contribuito, uno dei pochi economisti non anglosassoni, al dibattito sui fondamenti microeconomici della macroeconomia, che è stato uno degli elementi del rilancio della teoria keynesiana dopo la rivoluzione delle aspettative razionali.

Ma nonostante fosse promesso ad una brillante carriera accademica, e non abbia mai smesso di fare ricerca, Fitoussi ha presto preso un’altra strada, diventando l’intellettuale engagé che conosciamo.

È questo il senso del suo impegno nella fondazione e poi nella direzione dell’Ofce, il centro di economia applicata di Sciences Po creato quando le élites erano ancora convinte che la formazione di un uomo di Stato debba limitarsi al diritto e alle scienze politiche.

I lavori

Dall’Ofce Fitoussi ha nutrito il dibattito pubblico europeo e della sua amata Italia (dove era stato all’Istituto Europeo di Fiesole e dove tornava appena possibile). Europeista convinto, fu tuttavia da subito un critico feroce dell’impianto neoliberale della costruzione europea.

Il tema è al centro di uno dei suoi libri più belli, Il dibattito proibito (1997), nel quale Fitoussi si concentrava sul progressivo rattrappimento di un discorso pubblico marcato da un pensiero unico che, restringendo lo spazio per visioni alternative, conduceva ad una sorta di autocensura di intellettuali e policy maker nel dibattito sulla forma da dare all’Europa.

Proprio il suo ultimo lavoro italiano, La neolingua dell’economia, ha idealmente chiuso il cerchio riprendendo il discorso sull’asfissia del dibattito pubblico, purtroppo senza la combattività del dibattito proibito ma piuttosto con un tetro pessimismo sul futuro.

I lavori di Fitoussi sull’Europa, molti dei quali mi onoro di aver cofirmato, hanno di continuo insistito sulle caratteristiche fondamentalmente deflattive (ma non inevitabili) della moneta unica.

Proprio qualche giorno fa, al telefono scherzavamo (solo a metà) su come il dibattito di questi mesi sulla riforma delle istituzioni europee avrebbe potuto cominciare quindici anni fa, se solo si fossero fatte le letture giuste all’inizio degli anni Duemila.

L’umanesimo, la lotta alla concezione tecnocratica dell’economia, è il filo rosso che lega tutta la traiettoria di Fitoussi e che spiega come nel 2009 egli sia stato l’ispiratore della Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi sulla misura del benessere oltre il Pil; un lavoro che ha portato i suoi frutti e che mai Fitoussi ha interpretato come un viatico per la decrescita, ma piuttosto come l’imperativo di rimettere la distribuzione del reddito al centro delle politiche pubbliche.

Già prima della crisi del 2008 la disuguaglianza e i suoi effetti sulla crescita, sugli investimenti, sugli squilibri finanziari erano al centro delle preoccupazioni di Fitoussi, che negli anni ha contribuito al dibattito sulla tensione tra democrazia e mercato e sulla necessità per lo stato di ritrovare quel ruolo di regolatore e di intermediario tra cittadini e poteri economici che aveva avuto negli anni d’oro della socialdemocrazia.

Ora che quel consenso neoliberale contro il quale Fitoussi si è battuto per tutta la vita non è più granitico come prima, i mille spunti di riflessione dati dalla sua opera saranno utilissimi. Non posso però, in conclusione, esimermi da un ricordo personale. Per me Jean-Paul è stato un Maestro, un collega, soprattutto un amico.

Difendere le proprie convinzioni

È lui che mi ha accolto a Sciences Po, ormai venti anni fa (su insistenza di un amico, il colloquio non era andato bene!); e che poi mi ha onorato di una fiducia che è servita da base per una collaborazione durata fino a oggi.

Nel suo ufficio, in mezzo nuvole perenni di sigaretta, si parlava e si scriveva di Europa, di teoria economica, di disuguaglianza, di democrazia. Soprattutto, io imparavo giorno dopo giorno che il rigore e l’indipendenza di giudizio sono l’unico passaporto per diventare autorevoli in una professione sempre più dilaniata dalla guerra per bande.

È sicuramente questa la lezione più importante di Fitoussi: mai far mistero delle proprie convinzioni e, pur essendo rigoroso nel ragionamento, mai ammantarle di presunta oggettività “scientifica”. Non è un caso che nonostante l’etichetta di keynesiano fosse uno degli intellettuali più consultati (anche se purtroppo raramente ascoltato) da politici e uomini di governo, che fossero a destra o a sinistra: parlare con tutti, farsi arruolare da nessuno.

In questo giorno di grande tristezza ho una certezza: praticare quotidianamente il rigore e l’indipendenza al servizio del dibattito pubblico è il modo migliore per far continuare a vivere Jean-Paul Fitoussi.

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