Si stima che nel primo trimestre di quest’anno in Europa ben 120 miliardi di risparmio siano affluiti nei fondi di investimento gestiti con criteri Esg (environmental, social and governance), da noi comunemente chiamati “socialmente responsabili”, “verdi” o “etici”. La ricchezza finanziaria accumulata da queste entità è di quasi 2.400 miliardi in Europa e 17.000 negli Usa. Un fenomeno dunque che avrà un effetto duraturo sulla struttura dei mercati finanziari. E come ogni cambiamento, apre questioni irrisolte. 

Il fenomeno ha una dimensione commerciale: le gestioni Esg sono infatti un grande affare in quanto caricano commissioni mediamente più elevate. I confronti sono difficili, ma si può guardare ai costi degli Etf, che essendo repliche passive di indici forniscono indicazioni utili: gli Etf Esg che investono in azioni americane costano in media 33 centesimi rispetto ai 9 degli Etf di maggior dimensione. Come evitare che il fenomeno finisca per essere un affare solo per le società di gestione? Problema di difficile soluzione.  

Criteri oscuri

A differenza dei criteri finanziari (utili, rendimenti, costi) i criteri Esg, ammesso che si arrivi a una definizione esatta e condivisa, sono difficilmente misurabili e quindi verificabili. Inoltre è anche possibile che obiettivi meritori producano effetti collaterali indesiderati.

Gli esempi abbondano: gli elettrodomestici devono riportare l’efficienza energetica, ma in gran parte sono fatti di acciaio prodotto con altiforni; e quante componenti dei pannelli solari vengono dalla Cina e sono prodotti con energia inquinante?

L’auto elettrica è verde ma le batterie che l’alimentano richiedono minerali la cui estrazione provoca danni sociali e ambientali, oltre a creare problemi di riciclaggio a fine vita. La lunghezza delle catene di produzione nel mondo rende quasi impossibile verificare il rispetto dei criteri Esg in ogni loro punto: e il rispetto della parità di genere vale solo per consiglio di amministrazione in Italia o anche per la fabbrica vietnamita?

Le compagnie petrolifere occidentali tagliano gli investimenti nella ricerca ed estrazione del greggio essendosi impegnate ad azzerare le emissioni di Co2, ma con Opec e Russia pronte a rimpiazzarle l’impatto sulle emissioni nocive (che dovrebbe essere il vero obiettivo) è dubbio visto che aerei, auto, autocarri e navi per molti anni ancora bruceranno benzina e diesel. E l’elenco potrebbe continuare. 

Il rischio di abusi

Nell’impossibilità di definire chiare regole Esg, verificabili a posteriori, è di fatto impossibile regolamentare questi investimenti, onde evitare abusi. I regolatori possono solo richiedere alle società emittenti e all’industria finanziaria di fornire informazioni sui criteri adottati, lasciando però al mercato e ai risparmiatori la verifica e la sanzione dei comportamenti scorretti: di fatto un’autoregolamentazione poco efficace, ma senza reali alternative. Lo dimostra il regolatore europeo, sempre solerte nel produrre nuove regole, che da marzo chiede ai fondi di investimento di dichiarare se sono Articolo 6 (nessun criterio Esg), Articolo 8 (in linea di massima Esg) o Articolo 9 (esclusivamente Esg): altri documenti inutili per il risparmiatore e tanta burocrazia in più. 

L’esplosione degli investimenti Esg e l’impossibilità di definirli in modo univoco e verificabile, dovrebbe anche convincere di quanto accademica (nell’accezione di dotto, quanto superfluo) sia spesso la contrapposizione tra l’obiettivo della massimizzazione del valore di un’impresa rispetto a quello degli interessi degli stakeholders.

Il valore di una società, e quindi i multipli dell’utile contabile a cui viene valorizzata, dipende infatti dalle caratteristiche dei prodotti e servizi che produce, da come li produce, e dalla reputazione di cui gode sul mercato: se per esempio i consumatori prediligono prodotti “verdi” e gli investitori favoriscono le società con una governance Esg, il modo più rapido e sicuro per massimizzare il valore per gli azionisti è proprio quello di soddisfare le esigenze dei clienti e adottare comportamenti che migliorino la percezione del mercato (a parità di utili).

Chi decide quanto essere sostenibili

Un altro problema è il ruolo dello Stato. In quanto regolatore dovrebbe almeno attenersi ai criteri Esg che pretende dalle società private e dall’industria finanziaria; a maggior ragione in Italia dove è anche il principale azionista in Borsa. Invece fa l’opposto. Richiede ai privati comportamenti socialmente responsabili, ma di fronte agli interessi economici con Cina e Russia (Via della Seta e gas naturale) non muove un dito anche se i diritti civili sono spesso calpestati in quei paesi; per non parlare dell’export di armi di Leonardo e Fincantieri a controllo pubblico.

Combustibili fossili, tabacco, alcol e gioco d’azzardo sono spesso messi all’indice dai criteri Esg, ma sono la gallina dalle uova d’oro delle nostre finanze pubbliche; difficile rinunciarvi. E in quanto principale investitore italiano lo Stato dovrebbe magari pubblicare con chiarezza i criteri Esg che persegue nelle sue partecipate, le azioni intraprese per raggiungerli, e un rating indipendente sul suo portafoglio complessivo: tra armi, energia, trasporti e acciaio non credo che ne uscirebbe benissimo. Quanto alla governance delle partecipate pubbliche, le recenti notizie di cronaca bastano per suggerire di stendere un pietoso velo.

Chi ci guadagna

Ma perché gli investitori vogliono investire con criteri Esg? In un recente sondaggio, una metà ha risposto che spera di guadagnare di più; l’altra che vuole migliorare il mondo in cui vive. Negli ultimi 10 anni i due obiettivi non sono stati in conflitto: diversi studi hanno mostrato come le società americane con un elevato rating Esg abbiano avuto rendimenti in borsa superiori alle altre. Ma è un fenomeno destinato a sparire a lungo andare.

Negli ultimi anni infatti c’è stato un forte aumento nella sensibilità del pubblico verso i temi ambientali ed etici. L’attenzione mediatica ha fatto poi da cassa di risonanza rendendo questi temi di moda anche tra gli investitori: c’è stato così un aumento inatteso nella domanda di titoli di società Esg, che ne ha fatto lievitare i prezzi in Borsa.

Se però un investitore paga di più per questi titoli a parità di cash flow attesi, dovrà inevitabilmente attendersi nel tempo un ritorno inferiore sul suo investimento. A maggior ragione in quanto l’aumento dei prezzi dei titoli delle società Esg ne riduce il costo del capitale, permettendo loro di intraprendere anche progetti di investimento che altrimenti non avrebbero avuto una redditività sufficiente; ma riducendo anche per questa strada la redditività attesa della società. Non è un’opinione, è un dato di fatto.

Il boom della domanda di titoli Esg è necessariamente una tantum. Quando avrà esaurito i suoi effetti, temo non sarà possibile guadagnare di più e al tempo stesso contribuire a vivere in un mondo migliore. Bisognerà scegliere. Chissà quanti risparmiatori ne sono consapevoli. 

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