«Il Congo sfoggia davanti al papa il muscolo cattolico dell’Africa» titola El Pais nel pezzo che descrive il recente viaggio di papa Francesco in Repubblica Democratica del Congo (Rdc). Milioni di persone richiamate da una visita a lungo attesa, così come poi è accaduto anche in Sud Sudan.

Ma non si è trattato di una prova di forza o di un’ostentazione di potenza: era una convocazione di speranza, riunirsi attorno al solo leader mondiale che ancora ha una parola per l’Africa, un continente in stato di guerra endemica oltre che sottoposto a rapaci predazioni di ogni tipo.

Le parole di papa Francesco sono state severe: basta con i saccheggiatori che dissanguano il continente portando via tutto ciò che possono e lasciando soltanto miseria e abbandono. Basta con i responsabili che non hanno a cuore il futuro dei loro popoli. Le folle africane radunate attorno al papa esprimono un bisogno di avvenire che sentono venir meno nel disfacimento generale dei loro paesi. I tanti migranti africani (e non solo) sono spinti da queste verità: perché restare se in Africa si si è a rischio di morte per malattie altrove curabili; o si è a rischio di perdere la vita a causa di guerre infinite; o se non ci si può istruire; o si è alla mercé di corruzione e poteri violenti?

Prima ancora del lavoro c’è tale dura realtà dei fatti: una questione di sopravvivenza. Gli esperti europei di emigrazione dovrebbero riflettere su tali oggettività: non esiste né muro né pull factor (leggi le ong) che tenga davanti a tali potentissimi push factor. I giovani africani lasciano il loro continente perché non hanno più fiducia nel suo futuro.

Ma non vorrebbero: per questo si stringono attorno a papa Francesco che è l’unico a parlare di speranza e di avvenire per l’Africa, l’unico che ci crede, assieme alle chiese. E assieme alle religioni. Nel mondo della deglobalizzazione, le nazioni si dividono e hanno ricominciato a combattersi duramente. La politica non riesce a trovare soluzioni né alle crisi né alle povertà. Le religioni invece hanno compiuto il cammino inverso: si sono parlate, incontrate, hanno dialogato con pazienza e tenacia, fino al punto di comprendere che potevano collaborare assieme per difendere la vita e il mondo. Per giungere a tale risultato i loro leader hanno fatto autocritica e hanno imparato a rispettarsi.

Il dialogo

Dalla metà degli anni Ottanta le religioni e il loro leader hanno svolto un percorso di avvicinamento le une verso le altre, più e meglio delle nazioni. Le guerre attuali sono soprattutto etniche, di potere, dentro una sola civiltà, non di religione. Certo c’è ancora molto da fare ma questa è una realtà di cui tener conto. Per anni la vulgata è stata: “Attenti alle religioni che sono la vera causa dei conflitti!”.

Com’è noto Samuel Huntington ne aveva tratto una teoria generale: dopo la fine della guerra fredda e delle ideologie, gli scontri bellici sarebbero avvenuti solo tra blocchi culturali e religiosi. In particolare si additava l’islam e il suo radicalismo: impossibile conviverci, si diceva, impossibile immaginare un islam “solubile nella democrazia”. Oggi si può constatare che è avvenuto il contrario: con un lavoro di dialogo interreligioso paziente e tenace, cristianesimo, islam, ebraismo e le altre grandi religioni globali hanno intessuto legami sempre più stretti, di collaborazione e amicizia.

Come aveva intuito Giovanni Paolo II a Assisi nel 1986, occorreva che le religioni si concentrassero non tanto su loro stesse ma sui problemi del mondo e della vita reale, in particolare la pace. Aver lavorato su tale intuizione è stata la costante opera del dialogo della Comunità di Sant’Egidio, non a caso da poco premiata con il premio Zayed for Human Fraternity a Abu Dhabi, e all’origine dell’avvicinamento di leader come il grande imam di al Azhar al Tayyeb o del grande ayatollah iracheno al Sistani.

È stata una scommessa sulla forza convincente dell’amicizia tra religioni diverse che parevano irriducibili. Oggi sono numerosi i casi di azione comune sul terreno a protezione della convivenza, anche in paesi difficili. Certo rimangono molti problemi e tale paziente lavoro di dialogo deve continuare. Ma è anche giunta l’ora che divenga un esempio per le nazioni e per la politica, troppo spesso attanagliata dal senso di impossibilità e di rassegnazione e incapace di offrire un’idea di futuro comune.

Oggi le religioni devono essere consapevoli che possono cambiare il mondo lanciando un messaggio positivo, controcorrente alle attuali tensioni che si moltiplicano. Mentre le grandi nazioni si sfidano e i “poteri forti” globali rimangono accecati dall’ebbrezza del profitto senza ritegno, le religioni rappresentano una forza di resistenza e offrono un esempio di sintonia e di ricerca di soluzioni comuni. Le parole di papa Francesco sono in questo senso molto chiare: proposte che concernono anche l’economia, l’ambiente, il vivere sociale, oltre che ovviamente la pace.

Il documento sulla Fratellanza Umana firmato dal papa e da al Tayyeb è tutto da leggere: qualcosa di molto innovativo per l’islam e anche per molti cristiani. Oltre ebraismo, cristianesimo e islam anche le altre grandi fedi sono coinvolte in tale percorso, come dimostrano le celebrazioni in Giappone sul monte Hiei dove le religioni orientali e asiatiche si incontrano con quelle monoteiste e dialogano in modo nuovo da tre decenni ormai. Nonostante tutti loro limiti, le religioni stanno dfiventando un approdo di salvezza per un’umanità alla ricerca di senso e di futuro.

Ci sono punti critici dove devono ancora dimostrare di essere all’altezza delle sfide, come in Terra Santa o davanti alle molteplici manipolazioni del jihadismo e di ogni estremismo religioso aggressivo. Tuttavia dentro le tempeste di un mondo che ha perso la pace e si è rivelato incapace di distribuire ricchezza e sviluppo, le religioni hanno dimesso la loro monoliticità, si sono aperte, si sono mescolate, hanno lasciato cadere veemenze e incubi omologanti, costruendo con umiltà un’idea comune di difesa della vita. È certamente una buona notizia per tutti. 

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