Che questa sarebbe stata una campagna elettorale in salita per il centrosinistra (Cs) era ovvio da tempo. Da quando, all’inizio degli anni Novanta, il sistema partitico ha assunto una struttura bipolare, il Cs ha attratto il voto della maggioranza dell’elettorato italiano una volta sola. Nel 1996 ottenne più seggi perché Umberto Bossi aveva rotto con Silvio Berlusconi e la Lega presentò suoi candidati nei collegi uninominali della legge Mattarella.

Nel 2006, superò per l’unica volta in voti il Cd (di nuovo unito) con uno scarto inferiore allo 0,1 per cento sul totale dei validi, dopo una legislatura alla fine della quale il Cd sembrava alle corde.

Non a caso, in coda alla legislatura il Cd approvò la legge Calderoli, che abolì i collegi uninominali con l’obiettivo di rendere meno netta l’annunciata sconfitta. Obiettivo raggiunto, perché il Prodi 2 resse solo due anni.

A metà del 2007, i sondaggi e le elezioni provinciali registravano uno scarto tra le due aree politiche di 15 punti. Alle elezioni del 2008 fini 38 a 47.

Nel 2013, con il 29,6 per cento dei voti (0,4 per cento in più del CD), grazie alla Calderoli, il Cs ottenne il 55 per cento dei seggi alla Camera. Non aveva la maggioranza al Senato ma senza il Pd formare il governo sarebbe stato impossibile e senza governo si sarebbe andati a elezioni anticipate.

Quindi, il Cs ha espresso, in sequenza, i governi Letta, Renzi e Gentiloni. Nel 2018 il Cs ha preso il 23 per cento dei voti contro il 37 per cento del Cd, ciononostante ha fatto parte del governo per oltre i due terzi della durata della legislatura. Peraltro, nonostante abbia ottenuto solo una volta, di poco e per poco, più voti del Cd ha sempre espresso il presidente della Repubblica.

Oltre a questa evidenza (il Cs non ha mai battuto in voti il Cd se non nel 2006) c’è la regolarità, interrotta solo dai risultati “tripolari” del 2018, per la quale chi aveva governato nella legislatura precedente ha sempre perso le elezioni.

Dopodiché, i miracoli (intesi come fenomeni non prevedibili sulla base dei dati noti) sono sempre possibili. Per la vivacità della partecipazione democratica è sano che gli elettori non si facciano deprimere o orientare troppo dalle previsioni. Politici e giornalisti devono per dovere professionale tenere aperta l’eventualità a tutti gli esiti.

Quando l’esito è meno incerto

Non c’è dubbio che però ci sono campagne elettorali in cui l’esito è molto incerto (come nel 2006), altre nelle quali le strategie di partiti e leader politici sono condizionate dall’aspettativa di vincere o di perdere. La coalizione che pensa di vincere fa più in fretta a trovare al suo interno un accordo. Al massimo il disaccordo nasce dall’ansia di assicurarsi le spoglie preferite della probabile vittoria.

La coalizione che pensa di vincere può commettere errori comunicativi che fanno perdere voti o, più facilmente, sparare promesse che impongono scelte di governo sbagliate dopo, perché vincendo rischia di doverle mantenere.

Nella coalizione che teme di perdere è più difficile cucire tutte le componenti. Nel 2008 la strategia scelta da Walter Veltroni risultò elettoralmente efficace, al contrario di quanto ritiene chi non ha memoria dei dati di partenza.

Invece che entrare in un negoziato logorante con Rifondazione e Comunisti italiani, puntò sulla affermazione della nuova immagine riformista che stava cercando di dare al Pd, fece una campagna in positivo, come se potesse vincere, e forse le piazze piene lo convinsero davvero che sarebbe accaduto, senza mai nemmeno nominare l’avversario.

Poteva farlo anche perché la legge elettorale Calderoli avrebbe dato al Cd al massimo il 55 per cento dei seggi, mentre il resto sarebbe stato ripartito su basi proporzionali. Non aveva una stretta necessità di includere tutto e il contrario di tutto nella coalizione.

Con la quota maggioritaria assegnata nei collegi uninominali, invece, più il Cs si divide, più ampia (salvo miracolo) sarà la maggioranza parlamentare del Cd, più piccola la fetta dell’emiciclo occupabile dagli altri.

Enrico Letta ha quindi dovuto assumere la veste del federatore. Dopo aver convinto Calenda ora è alle prese con la sinistra di Fratoianni e Bonelli.

Se non ci riuscirà potrà comunque fare appello al loro elettorato potenziale, che non è detto sia disponibile a seguirli laddove dovessero accasarsi con i Cinque Stelle. Dovrebbero spiegare ai loro elettori che per contrastare “la destra di Calenda”, fanno un favore a quella di Berlusconi, Salvini e Meloni.

Le coalizioni che temono di perdere, infine, facilmente giocano la carta della demonizzazione dell’avversario. Può forse mobilitare qualche potenziale astenuto, ma non sposta neanche un voto.

Se poi per delegittimare l’avversario si usano con superficialità categorie impegnative come fascismo, antisemitismo e derivati, avendo come prova il tono di un comizio o qualche gagliardetto esposto nelle retrovie, si rischia di risultare davvero poco convincenti.

Per cambiare l’esito, questa strategia dovrebbe persuadere chi oggi pensa di votare Cd a non farlo con l’argomento che il Cd  (cioè l’area politica per cui la stessa persona pensa di votare) sarebbe oggi guidato da forze antidemocratiche.

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