«Preparatevi a tempi migliori, perché in quel momento questo ci aiuterà a ricordare le cose che sono successe ora» diceva papa Francesco in un’intervista a Tablet pochi giorni dopo la toccante cerimonia del 27 marzo 2020 in una piazza san Pietro deserta in pieno lockdown. Ma dei tempi migliori, per la chiesa italiana, finora ci sono poche tracce.

E se fioccano le pubblicazioni sulla crisi del cattolicesimo europeo, da La chiesa brucia di Andrea Riccardi a Il cattolicesimo ha ancora un futuro in Francia di Guillaume Cuchet, gli ultimi dati confermano che in Italia la chiesa è anziana: su un totale di 32mila sacerdoti, solo un prete su dieci ha meno di 40 anni. Mentre un anno di pandemia ha presentato il conto salato di 269 sacerdoti morti fra le corsie d’ospedale, si nota un sempre più chiaro scollamento tra la chiesa e la società italiana: paradossale, per certi versi, con un pontificato dall’accento fortemente sociale e pastorale quale è quello di papa Francesco.

Eppure, il cambiamento dei rapporti tra Santa sede e governo italiano c’è ed è stato dimostrato dalle ultime reazioni in seguito alla nota vaticana che chiede di rimodulare il testo del ddl Zan contro l’omobitransfobia, che ha svelato la resistenza pervicace anche di politici cattolici di nascita democristiana, come l’attuale segretario del Partito democratico, Enrico Letta.

Non c’è la Cei

Il vuoto c’è ed è ampio, come rivelano i dati presentati nel volume Il gregge smarrito (Rubbettino). Secondo lo studio, oltre la metà dei cattolici italiani riconosce che la chiesa cattolica sta attraversando un periodo di declino: per il 42,2 per cento il motivo sta nell’incapacità di cogliere le sfide della modernità, per il 22,7 per cento i colpevoli sono i pastori che non si occupano di questioni sociali.

In tale quadro, i vescovi italiani hanno mostrato l’incapacità di colmare questo vuoto, facendo saltare qualsiasi mediazione per lasciare spazio all’azione diretta del papa. È stato Francesco che, durante la prima ondata pandemica, ha spento il fuoco reazionario della Cei sulla chiusura dei luoghi di culto disposta dal governo Conte. Un ammorbidimento della linea dei vescovi sull’emergenza sanitaria è avvenuto con il travagliato ricovero del presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, che ha indotto i prelati ad adottare una linea di tacito sostegno sanitario. Ma l’assenza di una mediazione efficace si è ripresentata quest’anno nel dibattito sul testo del disegno di legge Zan.

Dopo mesi di opposizione a una legge definita «liberticida» e a seguito delle reazioni a quella che è stata percepita come un’ingerenza vaticana nell’iter di una legge italiana, è dovuto intervenire il segretario di Stato, Pietro Parolin, per calmare le spinte anticlericali che chiedevano semplicisticamente di archiviare il Concordato. Cosa resta della Cei di Camillo Ruini, quando i vescovi potevano invitare i cattolici all’astensione su alcuni referendum di portata etica? Quasi nulla.

L’erede ideale di Ruini, il cardinale Angelo Becciu, oggi ha altro a cui pensare. Eppure era stato lui a erigere, negli ultimi anni, un ponte fra il Vaticano e il centrodestra di Giancarlo Giorgetti, come aveva svelato Il Fatto quotidiano a proposito di un incontro segreto tra le due parti all’inizio del 2019: «Becciu l’interlocutore di tutti; l’alto prelato smaliziato al punto giusto per trattare riservatamente senza compromettere la Santa Sede», osservava Massimo Franco sul Corriere della Sera.

L’assenza dei partiti

D’altra parte sono venuti a mancare i partiti interessati a far da sponda ai cattolici. Lo dimostra bene Enrico Letta, nato nella Democrazia cristiana, che pure ha deluso quei vescovi che speravano di trovarvi una sponda sicura e insieme un argine alla Lega ambiguamente cattolica. Neppure un allievo del cardinale Achille Silvestrini e assiduo frequentatore di Villa Nazareth come l’ex premier Giuseppe Conte è riuscito ad ingraziarsi le simpatie della nomenklatura vaticana. Dopo l’endorsement dei gesuiti de La Civiltà Cattolica, i nostalgici speravano di ritrovare un sodalizio tra le due sponde nel suo successore, Mario Draghi - formatosi alla scuola del gesuita padre Rozzi dell’Istituto Massimo – e nella sua compagine di governo, che conta dieci ministri cattolici praticanti su 23.

Eppure ciò non è avvenuto: i tempi del «cattolico adulto» Prodi e del braccio di ferro con il cardinale Ruini dopo il voto nel referendum sulla fecondazione assistita non esistono più. Invano l’anziano porporato è stato interpellato per gettare ponti verso la Lega di Matteo Salvini. La politica oggi non fonda più la sua identità esclusivamente sui valori cattolici, come ammette un esperto del contesto italo-vaticano come il direttore de Il Regno, Gianfranco Brunelli: «Sono venuti meno i partiti nella loro definizione strutturata e culturalmente consapevole ed è venuta meno la Conferenza episcopale italiana».

Da ciò prende le mosse Essere Qui, l’associazione fondata da Giuseppe De Rita, che annovera tra i soci nomi di spicco della società italiana come Romano Prodi, Ferruccio De Bortoli, Andrea Riccardi e Liliana Cavani, con lo scopo di promuovere la partecipazione del mondo cattolico alla società laica.

I due papi

In questo trend discendente va rilevato il ruolo di papa Francesco. I dossier italiani non sono in cima alle priorità del pontefice argentino, come avveniva per papa Giovanni Paolo II, a stretto contatto con il cardinale Ruini. L’agenda di Bergoglio è tutta tesa alla pastorale e ai migranti e la sua roadmap tende a giustapporsi a quella delle chiese locali, inclusa quella italiana. È lui ad aver fatto pressing perché i vescovi avviassero un cammino sinodale partendo dal convegno di Firenze del 2015: come il Mediterraneo è riflesso di un’umanità che si muove senza confini, così Roma non può essere il solo e unico centro della chiesa universale.

La sede di Pietro è tale se considerata punto di innesco di una totalità ecclesiale, e questo dimostra perché da tre anni il pontefice preferisca situare la stesura di gran parte dei suoi documenti in san Giovanni in Laterano piuttosto che dall’altra sponda del Tevere. Dopo la costruzione di una struttura di governo inossidabile voluta da Giovanni Paolo II, sia a livello gerarchico (Pastor bonus) che episcopale (Apostolos suos), oggi a Roma vivono due papi: Francesco, promotore della pastorale e di questioni sociali, e Bergoglio, che innesca processi di riforma e piccona una struttura troppo verticistica da cui scaturiscono i mali della curia da lui ritratti nel discorso natalizio del 2014.

Quest’ambivalenza si riflette anche nella Cei, da cui Francesco drena i suoi uomini migliori per collocarli in posti chiave – è il caso di Nunzio Galantino, nominato capo delle finanze e casse vaticane presso l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica (Apsa). Ora che il cammino sinodale è alle porte, il papa rileva la «problematica» rigidità del clero italiano e chiede che i vescovi attuino quanto dichiarato nella carta d’intenti presentata a maggio scorso: «La forza dell’impegno civile attraverso i corpi intermedi, la pratica di una cittadinanza e di un servizio politico all’altezza della ripresa auspicata».

 

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