TikTok è l’unico social che nell’area d’influenza Usa competa con Facebook e Instagram togliendo minuti di utilizzo per ogni utente, e dunque pubblicità e soldi. Ecco perché da qualche anno la lobby della Silicon valley guarda al governo, sia con Trump sia con Biden, perché tagli le gambe alla versione social della minaccia cinese.

L’argomento propagandato in pubblico non è, ovviamente, quello della cassa, ma si tira invece in ballo la sicurezza nazionale e perfino l’ordine mondiale messi a rischio dallo spionaggio social dei cinesi grazie al dati dei tiktokisti americani. Washington sa impugnare, come la storia insegna, la bandiera quando da simbolo di una società aperta e a favore della concorrenza decide di badare ai conti che non tornano. 

L’elefante nella stanza

La minaccia derivante dal social di Pechino è tuttavia ridicola se la si inquadra nell’amplissimo, fiorente e lecito traffico dei dati che, Cina o non Cina, caratterizza le società del mondo d’oggi. Lo osserva sul New York Times Glenn S. Gerstell, che non è un avatar di Xi Jinping, ma un membro anziano del Centro americano di studi strategici e internazionali. È anche adeguatamente bipartisan in quanto collaboratore di Nsa e Css (spionaggio e analisi strategiche) dal 2015 al 2020 (sia con Obama sia con Trump).

Del resto basta googlare “broker dati” o chiedere a ChatGpt lo stato del fenomeno per scoprire l’esistenza di un mercato da 200 miliardi popolato da imprese che accumulano giorno dopo giorno e rivendono a chiunque i dati che rastrellano. Li trovano presso altre aziende (ad esempio quelle che attraverso carte di credito o carte fedeltà tracciano la vita di chiunque), con spam bot che si intrufolano nelle cerchie social, lavorando dati sanitari e rilevando i flussi commerciali nei vari territori.

Marketing commerciale e attivisti elettorali pagano per usare questi dati, memori dell’impresa di Cambridge Analytica, la società gestita da Steve Bannon, il Rasputin di Trump, e da una famiglia di super conservatori miliardari americani. Contea per contea, lavorò a distogliere dal voto (“non vale la pena”, “sono tutti uguali”) i potenziali elettori di Hillary Clinton, mentre sollecitava al seggio quelli che per stili d’acquisto e contenuti social erano dati per Repubblicani. E i cinesi, se mai volessero intromettersi nella elezione del futuro presidente, non avrebbero problemi a procurarsi, a prescindere da TikTok, tutti i dati necessari.   

Stando così le cose, Gerstell vede il “problema TikTok” come un pericoloso diversivo che distoglie gli occhi dall’evidenza dall’elefante nella stanza: la monetizzazione massiccia dei dati americani che crea a sua volta  la “monetarizzazione” delle sfide elettorali, che consolida le fortune di chi i dati può comprarli a dismisura. Dunque del patriziato del denaro, che come in Roma antica, si assicura con i soldi voti e potere che gli procurano altri soldi.

La campana del brokeraggio dati risuona ovviamente anche per l’Unione europea, che forse più degli Stati Uniti è in condizioni idonee a far qualcosa. Del resto di qua dall’Atlantico non ci sono tracce di isterismi anti TikTok, e i regolamenti europei stanno da tempo mettendo i ceppi all’elefante delle Big tech. Patate bollenti che per il Congresso Usa è più difficile gestire perché si tratta di campioni nazionali.  

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