Se la Costituzione ha costruito l’identità e l’immagine della Repubblica, essa è stata oggetto di mutevoli usi e interpretazioni. Sappiamo che ai falliti tentativi di riformare la Costituzione corrisposero peraltro sia l’arretramento dello stato sia la parabola declinante della “Repubblica dei partiti”.

Negli anni tra i due secoli emerse infine una nuova costellazione di interessi e movimenti, poteri e corporativismi, con il crescente ruolo esercitato dalle istituzioni di garanzia (presidente della Repubblica e Corte costituzionale) nonché dalla supplenza della magistratura. Sono andate mutando le forme della sovranità popolare e con essa l’esercizio di diritto e diritti.

Se intendiamo la Costituzione «come testo fondativo, come ordinamento», assai apprezzabile risulta lo studio recente di Raffaele Romanelli, volto a indagare come essa «acquista concretezza storica nell’effettiva vita delle sue norme e dei suoi istituti e, più ancora, nell’intima essenza del paese, del suo passato, nella sua politeia» (L’Italia e la sua Costituzione. Una storia, Laterza).

Tramite la riconsiderazione di quella che i giuristi, muovendo da un testo classico di Costantino Mortati (1940), hanno chiamato la “costituzione materiale”, troviamo lo svolgimento di un suggestivo e fecondo percorso di ricerca, inteso prima a «indagare le matrici del manufatto costituzionale» e quindi a «considerare il suo retroterra giuridico-costituzionale», con attenzione sia alle correnti politiche e alla produzione scientifica sia all’opinione pubblica.

Le origini

Ricca di richiami e competenze ben note è la ricostruzione delle origini del testo costituzionale. Nonostante i diversi percorsi politici ed esistenziali, decisiva fu la sintonia tra i portavoce delle culture cattolica e social-comunista, costruita «sulla base della comune sensibilità solidaristica, della vocazione sociale che si volle attribuire all’erigendo edificio costituzionale».

Fu un’alleanza che «prescindeva da un comune riferimento istituzionale, da un “patriottismo costituzionale” condiviso, ché semmai comune era l’avversione verso il passato».

Una tale convergenza, che si reggeva sulla negazione storica dell’universo capitalista e dell’individualismo borghese, marginalizzò le tradizioni liberal-democratica pre e post fascista e ogni possibile “terza via”; sebbene l’influenza mazziniana e segnatamente repubblicana fosse tutt’altro che assente (M. Viroli, Repubblicanesimo e Costituzione della Repubblica, in Almanacco della Repubblica, a cura di M. Ridolfi, Mondadori).

Efficace è l’autore nel ricostruire il carattere contradditorio, settoriale e corporativo, che le politiche sociali – snodo dell’intesa in Costituente – registrarono nel sistema politico “consociativo”, fino a quando l’esplosione del debito pubblico lungo gli anni ’80 rese dirompenti limiti e squilibri del nostro Welfare State.

Di qui – tra fantasmi e fascinazioni, ormai nel quadro dei vincoli comunitari dell’Unione europea dopo il 1992 – l’emergere di iniziative volte a riformare (anche per via referendaria) la rappresentanza politica in senso maggioritario, così come a investire di funzioni più ampie le figure apicali dello stato.

Fu allora chiaro fino a che punto – osserva Romanelli – la «costituzione materiale, insomma, la “costituzione invisibile”, esercitava tutto il suo peso sulla Costituzione formale e sugli equilibri di governo». A qualunquismo, populismo e sovranismo occorre guardare con una sensibilità storico-culturale: le origini, la ricezione pubblica, l’uso politico.

Non può essere un compito di cui si facciano meritoriamente carico i presidenti della Repubblica (Sergio Mattarella fin da inizio mandato), così come i presidenti della Corte costituzionale (Paolo Grossi come Giuliano Amato). In tempi in cui si preannunciano aggiornamenti sulle parte ordinamentale della Costituzione e i temi costituzionali si prestano a sempre più frequenti forzature politiche e ideologiche, il ponderoso volume di Romanelli sulle prassi e sulle culture costituzionali incentiva ulteriori approfondimenti sull’apprendimento della Costituzione e sulla sua ricezione: i mezzi e i linguaggi delle istituzioni, i simboli e i rituali civili, l’educazione civica e la storia pubblica.

A supporto di un conseguente “patriottismo costituzionale” – nell’accezione a suo tempo proposta da Jürgen Habermas – necessitiamo di un riconoscibile “lessico repubblicano”. Se entrambi non appartengono alla sfera identitaria delle nuove formazioni politiche sorte tra i due secoli, il collante normativo e linguistico che li unisce rinvia alle diverse “generazioni” di diritti che oggi si sommano: umani, sociali, ambientali, genetici: nella rappresentazione di un “dritto ad avere diritti” che già il costituzionalista Stefano Rodotà aveva teorizzato.

È alla mazziniana etica dei doveri che in fondo si dovrebbe guardare, a quella inscindibilità di diritti e doveri che pure la parte I della Costituzione proclama con solennità. La sfida che abbiamo di fronte è la rifusione del civismo repubblicano, che si palesa in numerose circostanze (ultime, la pandemia e il soccorso in occasione delle alluvioni in Romagna), nelle forme e nei linguaggi del “patriottismo costituzionale”: un percorso che si presenta come accidentato anche per ragioni storico-politiche e culturali, dovendo superare una pervasiva ostilità verso le istituzioni dello stato e la politica.

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