La Rai del nuovo Consiglio di amministrazione è subito alle prese con malesseri e “sommosse”, almeno a giudicare dall’improvviso sciopero romano che lunedì scorso, 13 settembre, ha bloccato l’avvio dei palinsesti di stagione.

È probabile che l’episodio ne anticipi di analoghi, sempre più frequenti mano a mano che tanti ottimi impiegati, tecnici e giornalisti confessano a loro stessi che i posti di mestiere su cui da anni hanno plasmato convenienze, rabbie e aspettative non possono riprodursi tali e quali, perché stanno come una zavorra che tira a fondo ogni avvenire dell’azienda e la espone alla sindrome Alitalia.

Prodotto e organizzazione

Tutto questo nonostante che chi lavora in Rai (per nostra diretta, prolungata e approfondita conoscenza) appartenga in media al meglio del mestiere. Le chiacchiere da bar ospitate dai giornali suggeriscono il contrario e s’attardano sulla spuma della cronaca amministrativa ed editoriale perché comunque se c’è di mezzo la tv è pronta la notizia. Ma ciarlando di quisquilie pochi pongono attenzione al reale dramma dell’azienda che risiede non nel modo (più o meno onesto ed efficiente) di operare, ma in quella che produce giornalmente in aderenza ai vincoli imposti al palinsesto e, conseguentemente, all’organizzazione.

In questo quadro sembra che il nuovo vertice aziendale rifugga dal fare da pompiere e tirare a campare per sé stesso in mezzo al tirare delle cuoia dell’azienda, come ha fatto, in sostanza, il cda precedente. Questo ricaviamo dai virgolettati che secondo il Foglio riportano le opinioni degli “ambienti vicini” all’amministratore delegato, deciso, a quanto pare, a fare «tutto e subito» per accorpare le Testate multiple e deflazionare il numero dei (10) canali attualmente trasmessi sul digitale terrestre. I fondamenti, in breve, del pluralismo lottizzato. In linea generale si tratterebbe, se capiamo bene, di ridurre la dilatazione a favore del peso dell’offerta, concentrando gli sforzi su una manciata di canali e aumentando la quota di prodotti a utilità ripetuta, rispetto a quelli che si limitano a fare il surf sulle emergenze della cronaca. Un’offerta editoriale più densa e meno espansa ha ovviamente il merito di introdurre nella tv generalista italiana esattamente ciò che al complesso italiano, pubblico e privato, più manca nel paragone coi sistemi all’estero.

C’è anche in quei virgolettati un accenno al completamento della vendita delle torri trasmissione a operatori specializzati del settore, atto inevitabile quanto tardivo, e l’investimento di risorse su Rai Play, la piattaforma digitale e dunque il terreno di ogni visibile futuro, a cui volgere il grosso delle risorse risparmiate altrove.

Il punto è che le “risorse” non si fanno volgere altrove volentieri, per ovvia diffidenza condita di paura. E considerato che il passare a fare altro dovrebbe riguardare, a occhio e croce, qualche migliaio di persone fra tecnici, impiegati e giornalisti e circa il 20 per cento del bilancio, si ottiene una buona misura delle condizioni di fondo che sono all’origine delle attuali e future turbolenze. Quali che siano i pretesti tecnici, organizzativi e contrattuali che di volta in volta appariranno in primo piano.

È bene che si sappia che a seconda di come volgeranno queste inevitabili dinamiche l’esito si ribalterà non solo sul futuro della Rai, ma su quello dell’intera industria audiovisiva. La Rai infatti usa i ricavi (70 per cento dal canone e 30 per cento dalla pubblicità) non solo per muovere sé stessa, ma – in analogia a tutti i servizi pubblici europei – anche per co-produrre o comprare titoli con gli operatori grandi e piccoli presenti nel mercato.

A chi la prima mossa?

Alcuni, pur consapevoli della sostanza del problema, sperano di rinviare la questione alla stesura del nuovo contratto di servizio con cui il governo dovrebbe fissare alla Rai le rotte da seguire nel futuro, per scaricare su un “vincolo esterno” l’onere delle scelte necessarie. Questa ipotesi, in pratica un rinvio, ha un paio di limiti assai gravi. Il primo è che sconta la voglia del governo, tutto preso dalle tematiche e dalle riforme del Pnrr, di addentrarsi nel Vietnam dei rapporti fra politica e testate Rai. Il secondo limite ce lo suggerisce l’esperienza dei contratti di servizio del passato, redatti e negoziati fra mille pressioni d’ogni dove e niente affatto adatti a dettare riforme strutturali.

In buona sostanza nulla di effettivo in Rai è possibile che cambi se il vertice dell’azienda non si assume per intero e di propria convinta iniziativa il peso di avviare la complicatissima partita di una riforma dell’azienda basata su fatti immediati e non su dilazioni. Se le virgolette non mentono, il vertice attuale pare ne abbia coscienza. Ma anche la politica potrebbe decidere il risultato della partita a seconda che segua l’istinto di mettersi di traverso (perché al singolo politico interessa l’equilibrio del momento e non il futuro dell’azienda o, tantomeno, quello dell’industria audiovisiva) oppure di spianare la strada a una Rai nuova rimodellando il testo unico di legge varato nel 2005 in tutt’altre circostanze relative sia ai partiti sia al mercato.

L’origine dei problemi

I problemi strutturali e quelli più immediati della Rai discendono infatti da due crisi. La crisi della “proprietà” pubblica, ovvero dei partiti che impressero una torsione politicista al reparto informativo moltiplicandone strutture e dimensioni e creando il carico di costi delle tre testate (1,2,3) che con le loro molteplici edizioni giornaliere alternano squadre, ognuna di varie decine di tecnici, impiegati e giornalisti, distribuite su tre turni. Un costo divenuto immotivato (e senza paragoni nel resto dell’Europa, a partire dal modello Bbc) e dunque insopportabile una volta che si è spenta la forza delle fedi di fazione che caratterizzava in origine il Tg1 democristiano, rispetto al Tg2 socialista e al Tg3 denominato Tele Kabul ai tempi dell’occupazione sovietica. Sicché lo spettatore non può capire il perché di quell’ambaradan di testate che nei lontani anni Ottanta esprimeva e calamitava passioni partigiane che oggi, semmai, trovano il loro spazio più convinto ed immediato nelle camere d’eco emerse con i social.

C’è poi la crisi dal lato privato, in cui Mediaset, contando su quella Rai a far da palo, ha potuto spremere per decenni dalla pubblicità televisiva generalista ogni centesimo possibile. Su questa divisione di ruoli si è fondata dagli anni Ottanta in poi la coppia del cosiddetto Duopolio, la concorrenza ristretta ai due più grossi che in realtà non è mai esistita perché usanze e norme spartivano a priori la mole dei ricavi. Ma oggi, anzi ormai da qualche anno, i nuovi arrivati social e motori di ricerca (Google, Facebook e così via) risucchiano dal mercato molte centinaia di milioni e restringono i margini d’esistenza di quelle annose spartizioni. Da lì scaturisce l’effetto “zattera della Medusa” coi naufraghi che si divorano per riuscire a sopravvivere, tanto che nel mezzo dell’estate il ministro competente ha formulato una proposta di legge che restringe la quantità di spot vendibile da parte del Cavallo nella speranza (forse l’ultima illusione) che pari pari si riversino su Mediaset. A togliere del tutto i il tappeto sotto i piedi del duopolio ci pensano poi Sky, Netflix, Disney e simili che offrono film, documentari e serie, alternativi al flusso della tv “tradizionale”. Siamo dunque in mezzo a fenomeni globali e non nostrani, tant’è che in Usa gran parte della stampa locale sta chiudendo bottega proprio mentre da noi Publitalia vede i sorci verdi.

Tirando le somme, sembra di essere al centro dell’ennesimo caso in cui la crisi è talmente grande che la cosa più saggia è non sprecarla. Forse sarà proprio questa consonanza con la sfida più ampia del paese che riuscirà a dare alla Rai la spinta per uscire dagli implacabili retaggi del passato.

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