Il golpe in Niger provoca un ennesimo grave choc alla stabilità africana e, in particolare, della regione saheliana. La guardia presidenziale ha circondato il palazzo presidenziale di Niamey, prendendo in ostaggio il presidente Mohamed Bazoum e la sua famiglia. Mentre il primo ministro è rimasto bloccato in Italia, l’esercito ha imposto una transizione senza spargimento di sangue. Bazoum era stato eletto democraticamente nell’aprile 2021, dopo il doppio mandato – ugualmente democratico – di Mahmadou Issoufou.

Entrambi appartengono al medesimo partito Pnds di tendenza socialdemocratica. Questo nuovo putsch dimostra quanto la regione dell’Africa occidentale sia in preda a un terremoto politico che non sembra arrestarsi: jihadismo che aggredisce mettendo a rischio interi paesi (Mali, Burkina Faso), giunte militari in Guinea, Mali, Niger, Burkina e ora Niger; situazione fragile in Ciad dopo la morte del presidente Idriss Déby (ucciso in uno scontro coi ribelli). Tutto ciò mette sotto tensione la parte più ricca della regione, quella costiera come la Costa d’Avorio, il Benin, il Togo, il Ghana. Malgrado l’impegno profuso non sembra che i governi democratici africani riescano a fermare l’emorragia e nessuno può dirsi immune al rischio di instabilità.

L’esempio del Niger dimostra che la causa non sono soltanto i tentativi di forzare le costituzioni per ottenere un terzo mandato (come per la Guinea o il Burkina) o l’attacco jihadista (non così forte da determinare cambi di regime dovunque). Anche il vento dei sentimenti antifrancesi o il tentativo russo di sostituzione non paiono così potenti da causare tali sconquassi. La malattia è più profonda e riguarda la tenuta stessa dello stato africano e la natura del consenso. Le democrazie africane degli anni Novanta e Duemila non reggono perché non hanno risposto all’esigenza di una maggior distribuzione della ricchezza né hanno costruito il welfare tanto atteso (educazione e sanità sono allo sbando totale).

Di conseguenza la società africana si è totalmente sfarinata. La globalizzazione violenta con il suo spirito di concorrenza e di riuscita materialistica ha finito per distruggere le già fragili reti tradizionali senza che nulla ne abbia preso il posto. Soprattutto tra i giovani si è diffusa un’enorme delusione che li spinge a migrare (ecco il vero push factor) semplicemente perché non credono più nel futuro dei propri paesi. Il jihadismo o il reclutamento in milizie violente non è che un effetto di una più profonda crisi interiore della società africana. La risposta securitaria che l’Europa tende a dare (o peggio l’affidarsi a regimi autoritari) provoca l’inasprirsi della crisi e non la sua soluzione. È su tale delicato crinale che ci troviamo oggi: ridare fiducia alle popolazioni africane aiutandole a costruire un nuovo patriottismo continentale.

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