I processi di federalizzazione, intesa come disarticolazione sul territorio del potere politico, sono oggetto complesso di studio e sfuggono alle semplificazioni. Alcune costanti, però, è possibile È possibile individuare alcune costanti, e una ci dice come in uno Stato sempre più sociale, il federalismo smette di essere competitivo, per diventare sempre più cooperativo, con un’attenuazione delle autonomie locali a favore di un maggiore coordinamento.

Non è stato sempre così. Quando si chiude la stagione dello Stato assoluto e cominciano a nascere le prime forme di distribuzione territoriale delle funzioni di governo – la prima a comparire è la confederazione, che poi si trasforma quasi ovunque in federazione: in Svizzera, negli Stati Uniti, in Germania –, queste sono del tutto funzionali (o almeno coerenti) allo spirito dello stato liberale. Quello stato in cui il potere politico meno fa meglio è; perché meno fa, più lascia agio alla classe borghese di continuare i propri affari.

Da un lato, la moltiplicazione dei centri di governo rallenta le decisioni politiche, e così intanto si lascia fare alla “mano invisibile” che regola il mercato. Dall’altro, la parcellizzazione del territorio a livello politico genera una forte competizione tra area e area, tra uno stato membro e l’altro, per rendere il proprio mercato più attrattivo di quello del vicino.

Quando però il suffragio gradualmente si allarga, e dunque nelle istituzioni rappresentative finiscono anche le istanze delle classi sociali diverse dalla borghesia, le cose cambiano radicalmente. È quello che si individua come il passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale, con la sua vocazione interventista. Al centro, beninteso, c’è sempre la libertà, ma se prima la pretesa era «lasciami fare quello che voglio», ora diventa «mettimi nelle condizioni di fare quello che voglio».

Passaggio non da poco, che richiede al potere politico di intervenire per «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Sono le parole dell’art. 3 della Costituzione del nostro Paese, che è certamente Stato sociale.

Il passaggio

Se è così, allora, quel federalismo che sospendeva la decisione politica, rallentando tutto, non va più bene. Ora bisogna decidere, anzi bisogna decidere molto. Bisogna, peraltro, decidere garantendo una uniformità di prestazioni sociali su tutto il territorio, a livello trasversale. Si tratta di una rivoluzione anche dal punto di vista fiscale: se prima restava tutto alle autonomie locali, ora bisogna raccogliere al centro e redistribuire. Un federalismo, dunque, non più competitivo, ma cooperativo.

Certo, il passaggio non è storicamente indolore. Negli Stati Uniti, il primo programma di Stato sociale – il New Deal di Roosevelt, dopo la grande crisi del ’29 – trova un’opposizione che ci vorrà un po’ a superare. Ma poi le cose prenderanno le forme richieste dai tempi, con un maggior accentramento di funzioni in capo al governo di Washington, estese competenze dello Stato centrale in campo economico-sociale, una valorizzazione dei governi territoriale sul piano esecutivo.

Lo stesso si registra in altri federalismi. In Australia, in Canada, in Svizzera. O anche in Germania, dove già nel XIX secolo Bismarck aveva potuto anticipare un minimo programma sociale, grazie al fatto che il federalismo della Germania unita è molto sbilanciato a favore del governo centrale, e prevede una certa egemonia della Prussia.

Quello che è chiaro, insomma, è che per realizzare un progetto di eguaglianza sostanziale – come è nella mission di uno stato sociale – formule di autonomie acefale e di differenziazioni competitive non sono adeguate.

Anche dove formule federali non esistevano nello Stato liberale – Italia, Francia, Spagna – e soltanto con lo stato sociale si inventano forme di distribuzione del potere politico sul territorio, queste assumono sempre declinazioni “moderate” (di regionalismo, più che di federalismo), lontane da ipotesi di autonomia locale particolarmente accentuate.

Se la destra che fa da traino a questo governo vuol continuare a chiamarsi e farsi chiamare “destra sociale”, di questo dovrà tener conto. E dovrà spiegarci come pensa possa conciliarsi quell’aggettivo, “sociale”, con quel disastroso disegno di autonomia differenziata che stanno regalando alla Lega.

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