Viva l’Italia è una commedia di Massimiliano Bruno uscita nei cinema una decina di anni fa. Il protagonista, Michele Spagnolo, un bravissimo Michele Placido, è il leader di Viva l’Italia. Perfetto prototipo di politico faccendiere che intrallazza a beneficio proprio e delle persone care. Favorendoli in barba alle regole ha promosso gli eredi di famiglia senza mai privarsi di piaceri e privilegi ritenuti pedaggio al potere conseguito e mantenuto stretto.

Durante un incontro galante viene colpito da un ictus, l’incidente è serio ma non tanto da impedirgli un lento ritorno alla vita col solo difetto – o pregio? – di scoprirsi derubato da ogni freno inibitore nel linguaggio e, si suppone, nel pensare il mondo sotto il timbro della sincerità. L’effetto tragicomico è inevitabile.

I figli prendono atto finalmente della ipocrisia sovrastante le rispettive esistenze e finiranno, a modo loro, col riscattarsi. Da parte sua il politico condannato a non mentire su nulla inanella situazioni imbarazzanti capaci almeno di svelare uno scenario opposto alla patina di perbenismo rinnovata sino a lì. Quando la finzione anticipa la cronaca!

Bene, ma lasciando la commedia per il reale, ha ragione il direttore di questo giornale a chiosare l’audio di Silvio Berlusconi combinato all’ipocrisia di Matteo Salvini sui legami con Mosca come «un problema di sicurezza nazionale».

Perché di questo si tratta con buona pace delle fatiche della leader di Fratelli d’Italia intenta per mesi ad accreditarsi in un contesto filo atlantico che la sua maggioranza non è disposta a incarnare. Pesano come macigni le parole del fondatore di Forza Italia, i biglietti aerei pagati in rubli per il capo della Lega, gli accordi di tal Savoini nella hall dell’hotel Metropol. Per tacere da ultimo sulle ambiguità del neo presidente della Camera a proposito delle sanzioni alla Russia.

La credibilità internazionale

A questo punto la pellicola – quella vera, non cinematografica – scorre davanti agli occhi di chi voglia vedere. C’è da scommettere che dal quartier generale di Via della Scrofa, storica sede missina, usciranno comunicati e veline tese a smentire qualunque inversione di rotta.

Si confermeranno in tono solenne gli impegni scolpiti (sic) nel programma di una coalizione che, anche questo dovrebbe esser chiaro, non esiste nei contenuti, nel pensiero, nella lingua. Detto ciò, hanno i numeri per dare vita a un governo? Sì. Seconda domanda, sono in condizione di guidare un paese che non sarà l’ombelico d’Europa, tanto meno dell’occidente, ma conserva una tradizione democratica e liberale nei suoi principi fondanti? Da ieri la risposta definitiva è no.

Qualsiasi cosa accada da ora in avanti un record il governo Meloni ha già conseguito: è riuscito nell’opera oltremodo rara di compromettere la sua credibilità internazionale prima ancora di giurare sulla Costituzione della Repubblica. Se a tutto questo sommiamo la perla della seconda carica dello stato – quel «vado dove voglio» così affine al «me ne frego» di mussoliniana memoria – l’affresco di questo avvio di legislatura si completa come peggio non si poteva immaginare.

Nell’Enrico IV, il capolavoro di Pirandello, il tema della finzione si snoda lungo i tre atti sino a concludersi in una parabola dell’irrealtà come forma estrema di difesa dal peso delle proprie azioni. Ma quello è dramma teatrale, grandioso anche perché confinato sulle tavole di un palcoscenico. Per noi il dramma è già precipitato nella cronaca assurda di questi giorni e per quanti errori possiamo aver compiuto, un esito simile l’Italia non lo merita. E allora unire le opposizioni e predisporre un’alternativa non dovrebbe somigliare a un miraggio, ma essere il minimo sindacale. Qui e ora.

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