Con ancor più baldanza, si è rimesso in moto il treno delle riforme istituzionali. Giustizia compresa. Ma sarebbe un errore archiviare un episodio che ha preceduto le elezioni europee. Alludo al caso dell’attacco del leghista Claudio Borghi al presidente Mattarella. La malcelata copertura di Salvini nonché la timidezza e il ritardo con i quali Meloni ha “fatto il verso” di temperare la polemica testimoniano che le cose stanno diversamente.

Di più: che è inadeguata e minimalista una lettura dell’episodio nel quadro della contesa pre elettorale alle nostre spalle tra Lega e FdI, in un loro gioco di posizionamenti.

Innanzitutto per motivi ideologici prima e più che politici: come ha osservato Pasquino, Meloni e il Salvini lepenista non la pensano in modo sostanzialmente diverso. La cifra del nazionalismo e del sovranismo li accomuna. Anche se la premier, per ragioni di ruolo che la obbligano a relazioni internazionali, è costretta a recitare una parte diversa. A corrente alternata, a tratti e alla bisogna.

Dissimulando tuttavia i suoi veri e più radicati convincimenti. Con una parte dell’establishment, in verità più interno che internazionale, che le dà credito o ha pensato bene convenisse fingere di crederci. Merita notare come, da più parti, si sia stati precipitosi e faciloni nel dare per acquisita l’emancipazione di Meloni dalle sue radici politico-culturali.

Si lasci pur stare il fascismo, ma si consideri la cifra del nazionalismo. Come è noto, il caso Borghi ha a che fare con l’interpretazione dell’art. 11 della Costituzione, la cui seconda parte (il seguito di un articolo integrato e inclusivo che esordisce con il netto “ripudio della guerra”) contempla la cessione di porzioni della nostra sovranità a organizzazioni internazionali che perseguono pace e giustizia tra le nazioni (dall’Onu alla Ue appunto).

Con più coerenza, se si può dire così, Salvini misconosce una lettura dell’art. 11 che coniuga sovranità nazionale ed europea. Persino con il suo peloso “pacifismo”.

Meloni invece se ne avvale per motivare il suo ostentato atlantismo (che le ha fruttato cospicui sconti sul suo passato), ma se ne discosta con il suo euroscetticismo.

Al fondo del contrasto sta, più in generale, in entrambi, Lega e FdI, un deficit di effettivo, cordiale ancoraggio ai principi e ai valori costituzionali dei quali Mattarella è alto e metodico interprete con la sua pedagogia civile. Come sorprendersi se forze politiche come Lega e FdI, che non affondano le loro radici nelle culture costituenti, mostrano riserve o resistenze verso chi se ne fa custode e promotore?

Come ha fatto da ultimo in tema di indipendenza della magistratura. La menzionata estraneità all’humus dei padri costituenti non è giudizio malevolo, ma fatto oggettivo: la Lega, al tempo della Costituente, non era al mondo e FdI è erede del partito che, in solitudine, votò contro la Costituzione approvata quasi all’unanimità.

A ben vedere, neppure sorprende che, non solo e non tanto con Mattarella, ma con l’istituzione presidente della Repubblica, le due destre di governo abbiano un problema irrisolto. Lo attestano le due riforme in cantiere da esse patrocinate e cui assegnano una portata identitaria.

Quella del premierato che, a dispetto delle mendaci smentite di rito, manifestamente mortifica il Quirinale ovvero la più alta istituzione di garanzia e, segnatamente, rifiuta una interpretazione attiva della sua funzione (con il suo noto potere a fisarmonica) per imbalsamarla in un ruolo notarile e comunque subordinato al dominus effettivo del sistema ovvero il premier plebiscitato direttamente.

Nonché la riforma dell’autonomia differenziata che, per definizione, non può che entrare in tensione con l’istituzione interprete e garante dell’unità e della coesione nazionale. Giusto auspicare che l’opposizione non usi Mattarella come arma politica contro il governo. Tuttavia è nelle cose che la sua figura aleggi come un convitato di pietra quando il conflitto politico investe principi e impianto costituzionale.

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