Sembra essere molto diffusa la percezione che la caduta di Conte e del suo governo sia stata opera di Matteo Renzi, ma la causa prima è da ricercarsi nella diaspora del Movimento Cinque stelle. I partiti vengono abbandonati sistematicamente quando appaiono in difficoltà o non in grado di fornire prospettive agli eletti. Ma la diaspora Cinque stelle è iniziata subito dopo uno straordinario successo elettorale.

Renzi si è limitato a osservare il fenomeno, e a fare un paio di conti e di estrapolazioni. Dati i numeri in gioco, una sessantina di parlamentari in meno aprivano praterie a chi volesse giocare la carta, questa sì spiegabilissima, di costruire un attore parlamentare che diventasse l’”ago della bilancia”, E certo questa lettura del fenomeno in corso ha attratto senza troppe difficoltà una varietà di parlamentari. Non occorrevano nemmeno grandi numeri, e il Pd non era in grado, proprio grazie alla sua debolezza anche numerica, di promettere molto.

Quindi la causa prima della caduta del governo Conte è stata la stranissima diaspora dei parlamentari Cinque stelle. Ci si può spingere anche fino a ipotizzare che se non era Renzi a cogliere la possibilità di farsi ago della bilancia, l’avrebbe colta qualcun altro.

Ma allora bisogna capire la causa prima, cioè perché i Cinque stelle continuano a perdere parlamentari eletti nelle loro liste. Non sembra difficile trovare una spiegazione: è nella debolezza intrinseca del progetto politico del Movimento. Delle Cinque stelle iniziali da cui il nome, quasi nessuno si ricorda più, tanto hanno perso di centralità (e non poteva che essere così, proprio per la loro genericità e fungibilità).

Le stelle oscurate

Tre sono invece probabilmente i punti programmatici davvero fondamentali, che occorre capire: il grido-mantra “onestà”, la dichiarazione di non essere “né di destra né di sinistra”, e la predilezione teorizzata (e in parte applicata) per la democrazia diretta, con la piattaforma digitale Rousseau, e in parte con infelici dichiarazioni sul parlamento da aprire come una “scatola di tonno”, che ricordano la descrizione del parlamento come “aula sorda e grigia”, episodio di infaustissima memoria.

Il grido “onestà” non sembra mai essere stato tradito alla lettera, ma ovviamente si è scontrato con i meccanismi reali di organizzazione del consenso, che presume atteggiamenti di sostegno economico (con i soldi dei contribuenti) a gruppi sociali individuati come potenziali elettori. Basterà ricordare l’avversione radicata espressa dai Cinque stelle per ogni forma di competizione per le concessioni balneari o di altri servizi pubblici i cui dipendenti rimarrebbero comunque super-protetti, o la predilezione per grandi opere di dubbia utilità in aree del paese dove prevalgono i voti al Movimento.

La dichiarazione “né di destra né di sinistra” è addirittura priva di senso tecnico: qualsiasi atto politico si colloca in un senso o nell’altro rispetto alla distribuzione delle risorse tra i gruppi sociali, la neutralità semplicemente non esiste. Questa vaghezza sistematica si trasforma poi facilmente in opportunismo.

Infine, riguardo alla democrazia diretta, cioè alla rinuncia programmatica a mediare tra gli interessi contrapposti, è ovvio che questi interessi continuano a rimanere contrapposti.

Il fenomeno, se non mediato da parlamenti e partiti organizzati, genera storicamente “mediatori” che tagliano di autorità gli inestricabili nodi gordiani dello scontro politico. Con vari tipi di spade. Il fenomeno è noto come “bonapartismo”, e spesso si ammanta di ottime intenzioni, con catastrofici risultati.

 

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